Linea d'ombra - anno XII - n. 91 - marzo 1994

ELEZIONI E INTELLETTUALI 13 UNA SOMMESSAPROPOSTA AGLI INTELLETTUALI MarcelloFlores Dare qualche suggerimento agli intellettuali, dalle pagine di una rivista che in larga misura agli intellettuali si rivolge, può sembrare tautologico e, forse, inutile. Gli intellettuali, però, come ha ricordato recentemente N. Bobbio nella Introduzione a Il dubbio e la scelta che raccoglie i suoi scritti su intellettuali e potere nella società contemporanea (NIS, Roma 1993), non sono una categoria univoca, tant'è che "ogni giudizio globale" su di essi risulterebbe sempre "inadeguato, fuorviante, oltre che oggettivamente falso". Non bisogna disperare, allora, che anche un discorso agli intellettuali - quanto di più triviale sembrerebbe esservi - possa indurre a qualche riflessione e a qualche mutamento di comportamento: perché queste note, infatti, hanno o almeno vorrebbero avere uno scopo eminentemente pratico. È almeno un secolo che gli intellettuali - categoria sempre esistita, sia pure con altri nomi, ricorda Bobbio - sono interessati a formulare progetti generali che sono eredi della spinta alla diffusione del sapere e della cultura propria dell'illuminismo. In questo ambito l'intervento nella sfera politica è stato vissuto come dovere e diritto morale, sia per influenzare l'opinione pubblica che per cercare di COITeggerei comportamenti della classe politica. Parallelamente al sorgere dell'intellettuale in senso moderno (convenzionalmente a partire dal!' Affaire Dreyfus, ma comunque nell'ultimo quarto del secolo scorso) si sono fatti sempre più ristretti e specialistici gli ambiti di riflessione e pratica culturale. L'aspirazione a un "uomo di sapere" completo, capace di coniugare il vero con il giusto e il bello, cozzava contro la tendenza a divenire esperti in ambiti sempre più ridotti; e ne era, anzi, per certi aspetti, il risultato. La "responsabilità" degli intellettuali (che ha coinvolto ogni settore, pur privilegiando scrittori e filosofi e, più di recente, scienziati e artisti) era intesa soprattutto sul piano morale e si rivolgeva, prima ancora che al mondo politico, verso la società civile: che si voleva educare e delle cui migliori inclinazioni si voleva essere espressione "alta". Verso il potere, invece, che si denunciava e si voleva costringere a cambiare, prevaleva una sorta di "irresponsabilità", vale a dire di silenzio sulle scelte concrete e di disimpegno a un coinvolgimento diretto nella partecipazione politica. Quando i due momenti cominciarono a intrecciarsi (attorno alla nascita del movimento socialista, ali' impegno ad affrontare la questione sociale e criminale, all'ingresso delle masse nell'arena politica e poi, più tragicamente, in guerra) i "progetti generali" si confusero sempre più con i programmi politici e con le grandi opzioni ideologiche. "Responsabilità" divenne sinonimo di testimonianza, e fu questa che si volle dagli intellettuali e gli intellettuali nella maggior parte si limitarono a dare: trovando nella "testimonianza" estrema del sac1ificio personale (durante la guerra di Spagna nel modo più limpido, ma anche nel conflitto mondiale e immediatamente dopo) il contrappeso "morale" di una sempre più marcata dipendenza, e quindi irresponsabilità, politica. La stagione più alta dell'impegno, quella tra le due guerre, fu paradossalmente una grande scelta morale che rifiutò di fare i conti con le scelte politiche che ne conseguivano. Ed è per questo che ancora oggi possono quasi ergersi a modello i comportamenti di chi, come Gide, cambiò radicalmente posizione politica ben tre volte nel giro di sette-otto anni. La tensione "morale" di quell'impegno-che aveva un minimo comune denominatore semplice e saldo: l'antifascismo - non venne meno neppure quando la sua strategia (bloccare il fascismo e la guerra) fu tragicamente sconfitta. Sentendosi "responsabili" solo moralmente, gli intellettuali continuarono a impegnarsi politicamente, e anche con eroismo e rischio della vita, in modo complessivamente subordinato. Chi volle coniugare morale e politica in modo insieme autonomo e coerente, scelse la strada dell' azionismo italiano (che però fallì politicamente nel giro di poco tempo) o quella del pacifismo e neutralismo di molti intellettuali americani (dei quali alcuni sbandarono politicamente, altri moralmente). Negli anni della guerra fredda si giunse presto a un paradosso: quando a fronte di una responsabilità politica sempre più diretta si assistette a un progressivo disimpegno, per non dire tracollo, morale (non di tutti, naturalmente, ma certo della maggioranza), sanzionato dalla crescente "partiticità" della partecipazione politica. Qualche mese fa, su "Il Mulino" (n. 3/93), Pasquino aveva svolto osservazioni di notevole interesse sulla necessità di una nuova etica pubblica per gli intellettuali: che sembrano ancor più di attualità a ridosso della scadenza elettorale incombente e del comunque nuovo assetto di potere che essa determinerà in gran parte delle istituzioni pubbliche. Il punto centrale della sua argomentazione risiedeva nel non considerare il diretto impegno politico (in veste di detentore di potere o di consigliere del principe) come l'unica modalità disponibile agli intellettuali per esercitare la propria influenza. Pasquino individuava inoltre i due principali terreni di intervento degli intellettuali nell'approntare l'agenda della riflessione sull'etica pubblica e nello sviluppare un discorso critico sui comportamenti politici basato sui principi etici. Parlare "a dispetto del potere", secondo Pasquino, e magari pagare un prezzo per la propria protesta, può addirittura favorire il consenso dell'opinione pubblica e quindi la costruzione di una nuova etica pubblica. A migliorare il regime democratico non serviranno tanto considerazioni compiaciute o narcisistiche autocelebrazioni, quanto critiche fonda,te, rigorose, alternative: in due parole "intransigenze motivate". E su questa base che Pasquino ritiene di poter riproporre in forme nuove, nel momento di fondazione della seconda repubblica, quella "rivoluzione morale" che l'azionismo aveva posto all'ordine del giorno nel periodo di fondazione di questa prima repubblica ormai al tramonto. Sulle proposte di Pasquino sta agli intellettuali pronunciarsi e schierarsi: anche se è facile vedere dai comportamenti quotidiani chi intende continuare a muoversi sulla vecchia strada, al massimo ripassata con una mano d'asfalto. Ma come e con chi mettere in pratica le sue esortazioni? A questo non è facile dare risposte, né, forse, intendersi con piena chiarezza. Il problema dei mezzi, infatti, rischia di rimettere in discussione anche la definizione dei fini. Per essere estremamente chiari: scegliere con chi e con quali mezzi promuovere questa "rivoluzione morale" darà a quella stessa rivoluzione dei connotati particolari, su cui forse non tutti i suoi sostenitori si troveranno successivamente d'accordo. Il principale mezzo del potere ideologico, ha ricordato Bobbio nella Introduzione già citata, "è la parola, o meglio l'espressione di idee attraverso la parola, e con la parola, ora e sempre più, l'imrna-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==