MESSICO 7 Juan de la Cabada LA PIOGGIA traduzione di Marco Nifantani Juan de la Cabada (Messico 1903-1985), è noto soprattutto per i racconti che ha lasciato: Paseo de mentiras, 1940, Incidentes mel6dicos del mundo irracional, 1944, El brazo fuerte, 1963, Cuentos del camino, 1980, Ahora yen la hora, 1980, Corto circuito, 1982. Militante comunista dagli anni Venti, è una di quelle figure leggendarie, assieme al Dr. Atl, ]osé Revueltas, TinaModotti, Diego Rivera, cheanimaronolaculturamessicana a partire dagli anni Trenta. Si veda al proposito il romanzo di Elena Poniatowska, Tinfsima, ERA 1991, non ancora pubblicato in Italia. Oltre alla produzione scritta, Juande la Cabada, raggiunse prestigio epopolarità per la grande abilità di narratore orale, tantOche molte persone delle fasce sociali più basse, operai e contadini della metropoli messicana, che de la Cabada frequentò nel corso della sua vita, ricordano ancora storie e racconti che non sono mai apparsi in volume. Egli si occupò assiduamente, con reportages e racconti, del popolo indio. La pioggia (La, llovizna), che qui traduciamo, è uno di questi racconti, tra/lo da Mi primera mujer y otros cuentos ( Edito rial Arte y Literatura, l'Avana 1989). Da qualche tempo, da quando mi sono arricchito con la guerra mondiale e mi sono sposato e sono venuti i figli, non mi riesce più di raccontare una storia. Prima ci riuscivo bene: allora ero libero, ora invece ho i figli. E se poi gli do il cattivo esempio. Perché non riesco a decidermi? Forse gli affari mi hanno abituato alle attenzioni del signor prete, del notaio, di un giudice o di qualunque altra persona. "C'è qui don tal dei tali che ce lo racconta". Ebbene, una di queste notti di nebbia e di pioggia, me ne andavo solo, senza testimoni, lungo la strada buia. Sì, al volante della mia automobile, con gli occhi fissi a seguire i fasci di luce dei fanali; avevo fretta e una rabbia contenuta, un certo inesplicabile timore e pessimi pensieri al vedere le luci opache di certe lanterne che oscillavano coprendo il cammino per tutta la sua larghezza, come fossero mosse da gente che bloccava la strada. Né fischi né sirene, né voci, nulla sembrava indicare che sul posto fosse successo qualche maledetto incidente. "Non vorranno per caso derubarmi? E chi dice che siano solo sulla strada? Avranno complici, nascosti ai due lati. Allora vediamo, se non mi fermo e li investo, gli altri mi sparano alle spalle. Però, che saranno mai questi dubbi, iJ revolver ce l'ho carico. Perché tanta paura? Prima o poi dovrò pure usarlo" pensavo; preparai l'arma e fermai la macchina. "Cosa succede?" dissi brusco e ad alta voce. Quelli delle lanterne si avvicinarono. Mi sembrarono quattro indios disgraziati, di quelli che uno riconosce subito come i prototipi dei nostri muratori, metà operai d'industria e metà contadini. Sotto lalucedei fari vidigli otto paia di sandali che si avvicinavano. Il resto degli indumenti erano delle tute azzurre, dei cappelli di paglia e un medaglione colorato al collo. "Cosa è successo" gridai. Mentre si avvicinavano, con le lanterne in alto, infilai la pistola nei pantaloni e per avere più facilità di movimento al momento desiderato, sbottonai i tre bottoni inferiori del gilè, nel caso ne avessi avuto bisogno. "Cosa è successo" gridai un'altra volta quando erano vicini e potevo vederli in faccia .. Uno di loro, quello più vecchio, aveva grandi baffi cadenti; due dimostravano una trentina d'anni e l'ultimo, il più giovane, meno di venti. "Padrone - disse il vecchio - dobbiamo arrivare a Città del Messico, perché dobbiamo entrare presto, domani di lunedì, al lavoro." Forse mi sono dimenticato. Non ho detto che quella notte di marzo, mentre tornavo dal fine settimana, era di domenica? Credo di sì oppure no? Alle parole del vecchio, furioso per la paura che mi avevano fatto passare e animato da un puntiglioso desiderio di vendetta, sorrisi con il necessario disdegno mentre muovevo la testa in segno di negazione. "Si è fatto tardi, capo" aggiunse uno degli altri indios. Era meglio prendersi un po' di tempo per pensarci e allo tempo stesso tormentarli un po', così che né accettavo né negavo. "Per favore padrone, è che già non passano i bus e lei va nella stessa direzione." Intervenne il più giovane: "Siamo muratori" e sorrise con innocenza dissimulando però una certa malizia. Osservai il suo sguardo astuto su un volto troppo sveglio, e fu così chiaro ciò che insinuava, che se mi fossi negato sarebbe stato come dimostrargli di avere paura e tirarmi indietro. E questo mai! "Voi tre sedetevi qua dietro" ordinai. "Tu vecchio davanti con me." Spensero le lanterne e fecero di corsa quelJo che gli avevo detto. Non smetteva, la pioggia. Tolsi il freno a mano, accelerai, e proseguii. Quelli dietro dissero soltanto quattro frasi che ricordo molto bene. "Come starà Eusebita?" "Si sa." "Così bella!" "Così splendenti i suoi sette anni!" Da lì in avanti si chiusero in un silenzio ostinato. Né una risata, un tentativo di attaccare discorso, solo un mutismo di quelli che inquietano, che suscitano sfiducia, sospetti o che intimidiscono, deprimono. E poi l'oscuritàafilodei continui precipizi, le circostanze, quella pioggerella tenace e il ricordo delle lanterne ancora negli occhi. Da lontano, l'alito del vecchio appestava di alcool di terza categoria, tanto che, quando si voltò per parlarmi, provai uno schifo insoppo1tabile. "Indio alcolizzato." "Questa acqua non entrerà neppure quattro dita sotto la terra, vero padrone?" "Uhh" risposi, contenendo il fiato. Dopo un breve silenzio, insistette. "Né due dita, neppure due dita, non crede padrone?" "Indio alcolizzato" pensai di nuovo e non gli risposi.
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