VEDERE,LEGGERE,ASCOLTARE 49 Buddha. Peccato non avere cercato di più nel cinema indiano, anche perché il film diverte laddove sembra rivelare un'estetica indiana: come negli effetti speciali utilizzati per le tentazioni del demone Mara al Buddha, scene che ricordano certi effetti usati nelle più popolari versioni cinematografiche dei poemi epici indiani, con divinità terrifiche e meravigliosi prodigi. Il modo un po' buffo in cui nel film viene resa la figura del Buddha potrebbe condurci ad analizzare una questione enorme, che qui invece vogliamo appena sfiorare: l'aderenza fra la narrazione cinematografica e l'oggetto trattato; ovvero: quanto c'è di realmente buddhista nel film di Bertolucci? Una domanda a cui non risponderemo perché un'opera cinematografica vive di vita propria, Bertolucci non è buddhista e non era certo costretto a fare un film budddhista. "Piccolo Buddha non è una biografia storica né una lezione sul buddhismo": così aveva "messo le mani avanti" il regista all'uscita del suo film. E aveva fatto bene. Ci limitiamo in proposito a fare un'unica osservazione: tutto il film sembra un' inno alla reincarnazione, vista come speranza in una nuova vita (lo afferma anche il personaggio di Chris Isaak, sconsolato: "vorrei credere nella reincarnazione, ma non ci riesco"); peccato che, invece, la reincarnazione per il buddhismo sia un male, anzi una condanna al rinnovarsi del dolore dell'esistenza, e che il fine del buddhismo sia proprio l'uscita dal ciclo delle rinascite. Ciò detto, il film riserva comunque dei piace1i allo spettatore: l'elegante fotografia di Vittorio Storaro, la rigorosa interpretazione dell'attore cinese Ying Ruocheng nella parte di lama Norbu, e non ultimi gli splendidi esterni in Nepal e in Bhutan. Ma a chi esce dalla sala, divertito o meno, resta un dubbio: il Buddha era un fotomodello? PHILIPGLASS. UN AMERICANOA PARIGI PeppoDelconte Se la pensassimo come la sceneggiatura di un film, la nostra st01ia paitirebbe probabilmente dal 1964 a Parigi, dove sbarca un giovane e squattrinato musicista americano con una borsa di studio e un'infinita curiosità. Il primo capitolo di La mia musica di Philip Glass (pubblicato di recente in Italia dalle Edizioni Socrates, Roma 1993, pp. 421, L. 50.000) offre un quadro davvero illuminante di quel vitalissimo momento storico e del fecondo interscambio culturale che caratterizzava le avanguardie di allora. Glass, apprendista stregone nella capitale francese, fa almeno tre incontri fondamentali in quei giorni fortunati. Innanzitutto la sua insegnante di composizione, la famosa Nadia Boulanger: una severa aristocratica già vicina agli 80 anni, ma acuta e implacabile selezionatrice di talenti. "A ventisei anni, come un bambino, dovevo impai·are tutto daccapo." Da quelle durissime ore di studio, il giovane americano apprende il rigore necessario a trasformai-lo in uno dei più importanti musicisti della seconda parte del secolo. E tra le tante cose impara "ad ascoltare la musica": qualità essenziale per chi vuole farla, ma la cosa è meno ovvia di quanto possa sembrai·e. Il secondo incontro fondamentale è quello con JoAnne Akalaitis, giovane e americana come lui, che faceva parte dei Mabou Mines, un collettivo di teatro spelimentale che avrebbe conquistato una buona notorietà negli anni seguenti. Il rapporto con JoAnne, che diverrà la sua plima moglie è detenninante anche sul piano artistico, perché proprio nella stagione parigina Glass scopre la sua passione per il teatro e comincia a indirizzare il suo lavoro di compositore verso un continuo scambio tra la dimensione acustica e quella visiva. Così, fin dai primi successi, il senso drammaturgico di Glass si dimostrerà l'arma in più rispetto agli altri colleghi dell'avanguardia ripetitiva (Terry Riley, LaMonte Young, Steve Reich). Non sono molti, d'altronde, i giovani musicisti di quegli anni che s'interessano a fondo, non solo di teatro d'opera, ma anche di Artaud e di Brecht, di Living Theatre e di Grotowski Per JoAnne e gli amici dei Mabou Mines scrive tra l'altro le sue prime composizioni per il teatro: Musica per PlaydiBecketteMusicaper Ensemble e due attrici. Il terzo incontro fondamentale di Parigi è quello con la musica indiana e più precisamente con il sitarista Ravi Shankar e il percussionista Alla Rakha. L'impatto con il sistema musicale indiano è per Glass illuminante: l'uso del ritmo in partico]ai·e gli spalanca nuovi orizzonti. "Noi il tempo lo dividiamo, ne prendiamo un pezzo e lo tagliamo a fette, come una pagnotta. Nella musica indiana invece (e in tutta la musica non occidentale che conosco), si prendono delle piccole unità, dei "battiti", che vengono collegate insieme a formare unità di tempo più ampie." La cosiddetta ripetitività delle strutture musicali di Philip Glass (ma anche di tanti suoi colleghi) si rifà ovviamente alla scoperta dei cai·atteri fondamentali della musica orientale, ma forse anche al contemporaneo sviluppo delle discipline (in gran parte mutuate da tradizioni orientali) che ravvicinano la corporeità liberata e la creatività artistica. Non a caso si considera ai primordi della musica ripetitiva occidentale quel Bolero di Ravel dalla travolgente fisicità, una composizione che-come ricorda nella sua Introduzione il critico Robe1t T. James - causò ali' autore stesso un ce1to imbarazzo per la facilità compositiva e per il clamoroso successo popolare. È chiaro che Glass non avrebbe condiviso quell'imbarazzo e che le proposte più rivoluzionarie degli anni Sessanta si concretizzano tutte in questa direzione, contro l'esasperata complessità e astrattezza dei serialisti. Il vizio novecentesco del genio che fugge il successo e scrive per le generazioni future è morto per sempre e Glass si dichiara ape1tamente dalla parte di coloro che sclivono per la gioia del loro pubblico, come Mozart o Verdi. La seconda parte della nostra ipotetica sceneggiatura è ambientata prevalentemente a New York dal '67 in poi: il giovane compositore reduce dall'apprendistato europeo, forma il suo celebre Ensemble, la vera base su cui imposterà tutto il lavoro futuro
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