Linea d'ombra - anno XII - n. 90 - febbraio 1994

48 VEDEREL, EGGEREA, SCOLTARE MAIL BUDDHA ERAUN FOTOMODELLO? MarcoRestelli Prima che ci pensasse Bertolucci, erano già parecchi anni che negli ambienti internazionali del cinema si discuteva sull' opportunità di fare un film sul Buddha. Non che mancassero pellicole raffinate, ispirate al buddhismo nei suoi più diversi aspetti, anzi vi avevano lavorato, in Asia, registi di valore, spesso con ottimi risultati (ricordiamo almeno il classico L'arpa birmana di Kon Ichikawa, o i recenti Morte di un maestro del tè, del giapponese Kei Kumai, Leone d'argento a Venezia nell'89, e Perché Bodhidharma è partito per l'oriente?, del coreano Yong-kyun Bae). Però si trattava, appunto, sempre di film asiatici, che nelle sale occidentali suscitavano l'interesse di unpubblico ristretto. Quello che mancava, invece, era "il" colossal sul Buddha, girato da un occidentale capace di operare una traduzione culturale per l'Occidente: mancava, per intenderci, un'opera come il Gandhi di Attenborough, che del mahatma dava una visione parzialissima (nel film manca tutta l'ispirazione religiosa di Gandhi) eppure onesta, emozionante, oltre che appetibile per il grande pubblico. A progettare un film sul Buddha si lanciarono in molti, fra cui la regista indiana Mira Nair (Salaam Bombay, MississipiMasala), ma alla fine anche lei fu costretta ad abbandonare: la concorrenza con il Bertolucci reduce dai trionfi dell'Ultimo imperatore era insostenibile. C'era poi naturalmente il problema di quale Buddha offrire al pubblico. A parte le suggestioni già descritte da Berto lucci in mille interviste (i suoi contatti con buddhisti americani, la Vita di Milarepa donatagli da Elsa Morante) è innegabile che l'idea fondamentale del film - due monaci buddhisti tibetani che si recano in Occidente per portare in Oriente un bambino, supposta reincarnazione di un lama- sia contenuta in un libro che non è fra quelli pubblicati sull'onda del film, o comunemente legati ad esso. Il libro in questione è Reincarnazione. Il piccolo grande lama, della giornalista inglese (e praticante buddhista) Vicki Mackenzie, pubblicato in Gran Bretagna nel 1988 e in Italia nel 1992 dalla principale casa editrice buddhista della nostro Paese, la Chiara Luce edizioni. La storia narrata da Mackenzie è vera, accaduta un decennio fa, e si snoda praticamente identica al soggetto del film di Bertolucci, con due sole significative differenze: il bambinolama nel libro non è americano bensì spagnolo, e i suoi genitori non sono due yuppies di Seattle bensì due spagnoli seguaci del buddhismo tibetano. Bertolucci ha dunque voluto girare un quasi-colossal largamente ispirato a una storia vera (anche se nelle sue interviste non cita mai il libro di Mackenzie). Un colossal "dalla parte dei bambini": "volevo fare un film che anche i bambini potessero capire" ha dichiarato; tutti i flash-back sulla vita del Buddha sono raccontati appunto con lo stile di una favola, illustrazioni del libro sul Buddha dato al bambino americano dai lama tibetani. Ma una favola, come sempre in Bertolucci, dai risvolti psicanalitici: come il piccolo imperatore del suo film-Oscar, anche il giovane Buddha è un alter-ego del regista. L'uscita del giovane Buddha dal palazzo principesco del padre (così come l'uscita del piccolo imperatore cinese dal palazzo imperiale) e la conseguente scoperta del dolore insito nella vita concreta, sono per Bertolucci metafore del passaggio dal "principio di piacere" al "principio di realtà" che segnano nella persona il passaggio dalla giovinezza alla maturità. La favola-colossal può anche risultare di sapore piacevole, ma non è convincente per ragioni di ordine diverso. Per esempio, di sceneggiatura: è davvero poco credibile l'assoluta facilità con cui due genitori americani (impersonati da Chris Isaak e Bridget Fonda) si lasciano convincere dai monaci a permettere al figlioletto di andare in Bhutan per diventare un lama... un problema che nella storia vera, narrata da Mackenzie, non si poneva, poiché i genitori erano pure loro buddhisti di scuola tibetana. Altro problema, gli attori scelti. Su Chris Isaak, poveretto, è meglio tacere: brilla per inespressività. Non si può proprio tacere invece suKeanu Reeves, scelto per impersonare il Buddha. Reeves è tanto bellino che sembra un fotomodello: ma con la figura carismatica del fondatore del buddhismo cos'ha a che fare? Niente. Appena a suo agio nel ruolo del Siddharta immerso nei piaceri di palazzo, perde ogni credibilità quando, lasciato il palazzo, inizia la ricerca spirituale che lo porterà a diventare il Buddha. E ciò porta a un'altra domanda: perché Bertolucci non ha utilizzato attori indiani nemmeno per la figura del Buddha? "Ho scelto Keanu dopo un'approfondita ma inutile ricerca in India" ha dichiarato in un'intervista. "Dal teatro e dal cinema tutti gli attori che mi venivano mostrati sembravano emuli di Stallone e Schwarzenegger". Non sappiamo chi fossero gli informatori di Bertolucci in India, ma sappiamo una cosa con certezza: Bertolucci ha preso una cantonata, perché in India non esistono solo i nerboruti eroi delle hindi-comedies, esiste anche un cinema indiano "d'autore", con interpreti che sarebbero stati molto più a proprio agio nel ruolo del

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