testo, The Gods Are Not To Blame, scritto dal nigeriano Ola Rotimi circa venticinque anni fa, è stato tradotto e messo in scena in tutto il mondo, eccetto in Inghilterra. Naturalmente ho dovuto riscrivere alcune parti. Ad esempio, quando pensiamo al teatro africano ci vengono subito in mente i tamburi, che in Africa rappresentavano la parola e di fatto comunicavano la parola da un villaggio ali' altro. Ma poiché a me questi clichè non interessano, decisi di fame a meno e scelsi piuttosto di rappresentare l'intero spettacolo su un unico enorme tamburo. Così ogni volta che l'attore faceva un passo si sentiva, tam; un altro passo, tam; una corsa: tam-tam-tam. Solo quando l'attore si fermava e cessava l'eco del tamburo poteva iniziare il dialogo. Avete una compagnia permanente? No, perché lavoriamo troppo sporadicamente. Inoltre oggi un attore per sopravvivere deve pensare alla televisione, o al cinema. Le due persone con cui invece collaboro regolarmente sono il mio scenografo e la mia drammaturga. È raro che collabori con autori, dato che tendo a mettere in scena testi classici, più che altro perché tutte le altre compagnie di colore utilizzano testi nuovi e temo che questo abbia avuto un effetto negativo. Trovo invece che sia fondamentale avere un drammaturgo. Perché? Perché troppe persone si definiscono "creative". lo non sono creativa; sono in grado di offrire interpretazioni e solo ogni tanto un po' di creatività. Lavorando invece con la mia drammaturga e il mio scenografo riesco ad accostare testo e immagine. L'alternativa sono questi cosiddetti "concetti registici". Non voglio dire che non si debbano avere concetti, ma bisogna stare attenti a non diventare t:roppoastratti. Ad esempio, l'anno prossimo faremo ReLeare io vorrei ambientarlo a Londra, che per me è come un grande regno, il cui re, Lear, è una celebrità televisiva con milioni di telespettatmi. Ma a Londra ci sono anche altri regni: il regno dei soldi, il regno della droga e così via. Sono quindi convinta che solo quando la mia drammaturga mi farà capire chi siano i re di Francia e d'Albania all'interno del contesto londinese potrò vedere se l'idea funziona veramente; e solo allora potr·ò andare in scena con la forza di zittire quei critici che vogliono ancora vederci martellare sui tambu1i. Fate tournée? No. Non si possono traspo1tare grosse scenografie in un furgoncino che ha posto a malapena per gli attori. Abbiamo fatto coproduzioni con Liverpool e Newcastle, ma co-produrre è diverso perché di fatto si sta sul posto per un determinato periodo di tempo e la gente viene a vedere lo spettacolo perché ti ha conosciuto al bar o ti ha visto per strada. Piuttosto mi piacerebbe avere una maggiore apertura verso l'Europa. Inoltre, se avessi i soldi, inviterei il Crossroads Theat:re del New Jersey, la più grande compagnia di colore d'America, oppure un gruppo senegalese i cui spettacoli non parlano olamente di oppressione. Sono stufa di questo teatro dell'oppressione, alla Fugard, che in Sud Africa è il re dei bianchi che si autoflagellano. Avete degli sponsor? Per ora siamo sovvenzionati esclusivamente dall' Arts Council (il principale ente sovvenzionatore in Gran Bretagna). Con gli sponsor è più.complicato. Nel 1988, facendo O Babylon! di Derek Walcott, che parlava di una comunità rasta su una spiaggia, ho dovuto includere nel programma la pubblicità del nostro sponsor, una ditta americana che trattava un prodotto per lisciare i capeIJi. La pubblicità diceva: "Fate a meno del peso dei vostri capelli!". Ogni volta che guardavo il programma mi si rivoltava lo stomaco. TEATRO47 Il vostro pubblico è cambiato da quando avete il nuovo teatro? Sì, il pubblico di allora era molto fedele, al punto che potevamo quasi riconoscere gli spettatori. Il 60% era nero, il 40% era bianco: i bianchi venivano ali' inizio e i neri alla fine, perché si passavano parola fra di loro. Ora dobbiamo ritrovare il nostro pubblico, ma questo è abbastanza normale quando si cambia sede. Lo spettacolo che per ora ha avuto più pubblico è la pantomima natalizia, una storia giamaicana anglicizzata e molto politicizzata che aveva come protagonisti Cristoforo Colombo, una sorta di Pavarotti, e il suo seguito: von Bundesbank, Lo Yen e così via. Il fulcro dello spettacolo trattava lo scontro fra animismo e spiritualismo. Colombo, infatti, parlava di un solo dio e nel nome di un solo dio uccideva tutti. Fate altre attività nel vostro teatro? Sì, facciamo molti seminari e dibattiti con il pubblico. Sin dal primo spettacolo nel 1986 ho volutoci fossero lezioni e mostre prima o dopo lo spettacolo. Credo infatti che questo tipo di collaborazione sia molto importante perché ci permette di offrire diversi punti di vista dello stesso problema. Guardare a se stessi solamente dal punto di vista creativo è estremamente pericoloso. In passato abbiamo anche collaborato con il British Museum la cui sezione egizia, senza entrare nei termini di chi abbia rubato a chi, è una delle più belle del mondo. Così, prima dello spettacolo, il pubblico poteva vedere gli originali su cui si basava la nostra scenografia di Antonio e Cleopatra. Ad esempio avevamo trovato un papiro in cui Cleopatra veniva rappresentata come una regina di colore e così abbiamo usato questa immagine, senza cambiare una singola parola del testo. Abbiamo anche collaborato con altri musei. Bisogna però ricordare che siamo pagati solo per gli spettacoli e che quindi ogni extra è un favore. La maggior parte delle sue collaboratrici sono donne. Pensache la questione femminile o femminista sia importante per la sua compagnia? No. Al giorno d'oggi troppi pezzi vengono scritti per i simpatizzanti di una certa ideologia e mirano esclusivamente a fare colpo, sono privi di introspezione, di profondità, e vengono scritti da giovani che non sanno bene come scrivere. Non trova che molti autori oggi, soprattutto in questa nazione, tendono a privilegiare l'aspetto politico-sociologico perdendo di vista l'aspetto teatrale? Esattamente! Superficiali, anedottici, intellettuali e intanto noi ci addormentiamo. Non si possono fare queste cose perché il teatro è intrattenimento. I classici tenevano la gente seduta per tr·e giorni facendola morire dal ridere, mentre oggi pensiamo soltanto di dover essere molto significativi. Perché? Facciamo parte di una società nucleare che vive in piccole scatolette che chiamiamo case. Abbiamo perso il senso della comunità. Senza una comunità con cui parlare la nostra mente, il nostro istinto creativo, diventano miopi, introspettivi, e pensano solamente a quello che io-io-io penso. Ma un pezzo teatrale non si basa sull'io, ma sul tu, sull'altro da sé. Questi autori invece abbracciano solamente la propria anima, nient'altro. Un comico del quale non vorreifare il nome mi ha detto chenon sa più comefar ridere la gente perché il genere comico reca sempre una certa dose di offesa e oggi nessuno vuole più essere offeso. Esattamente! Io vorrei tanto andare a teatro e vedere una grande storia d'amore completamente illogica e politicamente scorretta. Shakespeare oggi non avrebbe potuto scrivere. Per dio, non si può stare sempre seduti su un divano!
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