Linea d'ombra - anno XII - n. 90 - febbraio 1994

44 CARAIBI/MAIS diversi rimedi escogitati da lei, persino certe magie che aveva ereditato dalla mamaloi della sua stessa fede, ma inutilmente. Alla fine fu costretta a mettersi a letto. E poiché non poteva fidarsi di nessun altro, Mister Dombey non prese più il treno delle 8.10 per compiere il suo dovere quotidiano in città. Rimase al suo capezzale per poterle andare a prendere tutto il necessario. La donna peggiorò, e finalmente si decise a far venire un dottore. Ovviamente il dio Damballa si era adirato con lei. E poiché aveva compiuto tutti i riti prescritti per placarlo e non era servito a niente, ormai non si sarebbe più procurata ulteriori danni rivolgendosi alle stregonerie della scienza. Ma la hounsi aveva aspettato troppo. A! suo arrivo il dottore non poté che assistere ai suoi ultimi rantoli. Nell'autopsia ne diagnosticò la morte per avvelenamento da arsenico. Era stato un terribile errore. La hounsi aveva l'abitudine di prendere certe polveri per lo stomaco, a causa di una sua strana malattia conosciuta con il nome di flatulenza. L'ultima volta che era stato mandato a comprarla, Mister Dombey era stato anche incaricato di prendere dell'arsenico - per uccidere i topi. La mano maligna della Provvidenza, senza dubbio quella del dio Damballa, aveva messo l'arsenico al posto delle polveri per lo stomaco, con il risultato che la hounsi aveva cercato di curare la sua flatulenza con l'arsenico. I giornali diedero la colpa a Mr. Dombey, lo zombi. Naturalmente avevano torto, ma né i giornalisti in questione, né, in seguito, la polizia sapevano nulla di voodoo e di zombi. E Mister Dombey non era in grado di informarli. Ne seguì un clamoroso errore giudiziario. Mister Dombey fu riconosciuto colpevole di omicidio e condannato a morte per impiccagione. Se le cose fossero andate nel solito modo non avrebbe avuto alcun senso raccontarvi questa vecchia storia. Ma a quel punto ciò che prima era parso semplice e chiaro divenne di colpo assai bizzarro. I giornali erano elettrizzati e Mr. Dombey fu trasformato da un giorno all'altro in una specie di eroe. Alcuni addirittura scoprirono la prova della sua innocenza, come nelle ordalie medievali, nel fatto che non lo si riusciva ad impiccare. La prima volta la botola non si aprì. La seconda si spezzò la corda. Ma, e quello fu il massimo, quando finalmente tutto l'apparato tecnico funzionò a dovere e dopo che Mr. Dombey ebbe penzolato per un po' come da regolamento, il cadavere mostrò la più inaspettata collaborazione con i giustizieri nell'aiutarli a tirarlo su. La condanna a morte fu commutata in ergastolo. Si diceva che ali' epoca avesse circa sessant'anni e a giudicare dalla sua magrezza, dal pallore mortale del viso e dal fatto che negli ultimi tempi era passato attraverso esperienze alquanto debilitanti, tutti pensarono che lo Stato non avrebbe dovuto mantenerlo a lungo. I giornali volsero la loro attenzione altrove, pur tenendo presente la faccenda, in attesa del necrologio in cui la sensazionale impiccagione potesse di nuovo essere usata ad edificazione dei lettori. Ma i giornalisti muoiono, e i loro sogni muoiono con loro. Mr. Dombey, invece, continuò a vivere.Settant'anni dopo era ancora vivo, per la verità sempre più secco ed avvizzito, ma per nulla invalido. Aveva visto arrivare e andarsene molti secondini e molti carcerati. Ma poiché non faceva nulla per attirare la loro attenzione su di sé fu felicemente dimenticato e nessuno più badò alla sua età. In realtà Mister Dombey aveva 130 anni quando i pronipoti della sacerdotessa decisero di dare una bella pulita alla soffitta. Dopo la sua morte i parenti avevano preso possesso dell'infausta casa, delle galline e della zucca. Le galline le ammazzarono, ma, non sapendo che farsene di quello strano soprammobile, lo misero in soffitta insieme alle molte altre stranezze che avevano ereditato. Per due generazioni la zucca rimase lì, sempre più avvizzita e polverosa, ma con lo spirito di Mr. Dombey ben al sicuro dentro di sé. Orbene, in quel giorno di grandi pulizie la ritirarono fuori e senza tanti complimenti - d'altronde chi poteva sapere che aveva un valore ben superiore a quello di un'umafuneraria-Ia buttarono nel fuoco. Senza il minimo rumore si trasformò in cenere. E così Mr. Dombey, lo zombi, gabbò nuovamente i giornali e i cercatori di verità. E, se vogliamo essere precisi, gli archivi polizieschi. Se quel mucchietto di cenere nel cortile di una prigione avesse potuto parlare avrebbe riferito che all'improvviso Mr. Dombey era stato assalito da una febbre violentissima. Un secondo dopo era cenere. Poi si alzò il vento e Mr. Dombey venne disperso tra gli altri granelli di polvere. Roger Mais COPRIFUOCO traduzionedi PaoloBertinetti RogerMais ( 1905-1955) nacque in unafamigliadellamediaborghesia giamaicana di colore. Fu assai attivo nel movimento indipendentista e nella vita giornalistica e letteraria giamaicana degli anni Trenta, e dopo la guerra fondò una rivista politico-letteraria dai toni fortemente radicali. La sua opera più importante è il romanza The Hills Were Joyful Together, pubblicato nel 1953, poco prima che apparissero i primi segni del cancro, quella "malattia fascista", come lui la definiva, che lo portò alla tomba nel pieno del suofervore creativo. Questo racconto è trattoda West lndian Stories, a cura di A. Salkey, Faber and Faber 1979. La città era immersa nel buio. Tempo di guerra, c'era l'oscuramento: per risparmiare energia elettrica non s'accendevano i lampioni. Dietro le siepi discrete, le case erano avvolte in un'atmosfera di superba rispettabilità. La giovane alla fermata dell'autobus non aveva paura, nonostante l'ondata di panico che aveva assalito la città. Si diceva che bande di teppisti s'aggirassero per le strade dopo il tramonto per aggredire le donne sole. Prima di tutto, sapeva che in quella zona residenziale un bell'urlo sarebbe bastato a fare accorrere una ventina di cittadini rispettabili. E poi era americana e perfettamente conscia che, per tradizione, le americane non si spaventano facilmente. L'ombra nera che si materializzò furtiva dal buio sull'altro Iato della strada non la turbò affatto. Provò soltanto un po' di curiosità notando che le si avvicinava, lentamente. Era un giovane vestito con unacamicia e dei pantaloni comunissimi e un paio di scarpe di tela. Erano quelle a rendere furtivi i suoi movimenti: camminava senza far rumore con un'andatura vagamente curva. Era molto alto. Negli occhi aveva una luce strana, famelica e inquieta. Ma ciò che la colpì immediatamente fu il fatto che era negro; al confronto gli altri particolari parevano insignificanti. Nel suo paese non capitava tutte le sere che una bianca venisse avvicinata con tanta disinvoltura da un negro. La novità stuzzicò il suo interesse. Aveva .sentito dire che in quelle isole tropicali poteva accadere di tutto. "Ha un fiammifero, signora?" chiese l'uomo.

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