Linea d'ombra - anno XII - n. 90 - febbraio 1994

36 CARAIBI/LORRAI MUSICACREOLA MarcelloLorrai "Né europei, né africani, né asiatici, noi ci proclamiamo creoli": è il perentorio esordio di Eloge de la créolité, un libro pubblicato nel 1989 (presso Gallimard e Presses Universitaires Créoles) da tre giovani intellettuali delle Antille francesi, Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau, Raphael Confiant, autore di una grammatica del creolo della Martinica e della Guadalupa il primo, romanzieri gli altri due. Ci si può non dire "figli di Airné Cesaire"? La sua negritudine "è un battesimo, l'atto primario della nostra dignità restituita"; tuttavia, "terapeutica violenta e paradossale, a quella dell'Europa la negritudine fece seguire l'illusione africana". Dichiarando, per il superamento della negritudine, il proprio debito nei confronti di Le discours antillais di Edouard Glissant, scrittore e saggista martinicano di generazione più anziana, Bernabé, Chamoiseau e Confiant muovono un passo ulteriore: "Abbiamo inutilmente tentato di cercare rifugio nella normalità chiusa delle culture millenarie, senza sapere che noi eravamo l'anticipazione del contatto fra le culture, del mondo futuro che già si annuncia. Noi siamo insieme l'Europa e l'Africa, nutrite di apporti asiatici, levantini, indiani, e non senza sopravvivenze del1' America precolombiana". La créolité è "il mondo diffranto ma ricomposto", "una specificità aperta": "esprimerla è esprimere non una sintesi, non semplicemente un métissage o una qualsiasi unicità. È esprimere una totalità caleidoscopica, cioè la coscienza non totalitaria di una diversità preservata". Così, se Glissant è innanzitutto affezionato all'idea della solidarietà intercaraibica, Bernabé, Chamoiseau e Confiant si sentono protagonisti di una doppia solidarietà: antillana, con tutti i popoli dell'arcipelago, indipendentemente dalle differenze culturali; e creola, con tutti i popoli che indipendentemente dai continenti di appartenenza rivelano una affinità antropologica. Infatti "il concetto di antillanità ci pare fondamentalmente geopolitico. Dire 'antillano' non indica niente della situazione umana degli abitanti della Martinica, della Guadalupa, e di Haiti. Antropologicamente parlando, come creoli siamo vicini anche, se non di più, agli abitanti delle Seychelles, delle Mauritius o dell'Isola della Réunion che ai portoricani e ai cubani". Nella vicenda culturale recente delle Antille francesi il recupero di una peculiare identità in termini di "specificità aperta" non è stato prerogativa soltanto della riflessione teorica e della letteratura. Non è per esempio casuale che fra i protagonisti di SoliboMagnifique, uno dei romanzi di Chamoiseau, ci sia Doudou Ménaw, che è il titolo di una canzone di Eugene Mona. In un'intervista pubblicata in un numero speciale con cui lari vista martinicana "Karibel Magazine" (luglio-agosto 1992) ha voluto commemorare Mona, scomparso a quarantotto anni nel settembre del '91, Chamoiseau racconta: "Quando scrivevo Solibo Magnifique cercavo un nome per una donna piuttosto forte, e Doudou Ménaw di Mona mi è piaciuto moltissimo. Ricordo di aver scritto il romanzo ascoltando lecanzoni di Mona e quelle del cantante della Guadalupa Ti Céleste. Non sarà difficile notare una differenza di scrittura tra Chronique des Sept Misères e Solibo. L'ascolto di una musica come quella rinvia ad un diverso ritmo della frase e anche ad un'altra colorazione dei personaggi nella presentazione del loro spirito. È per questo che sostengo che è importante che un artista si abbeveri ad ogni forma di espressione e specialmente a quella musicale". Martinicano, al secolo Georges Nilecame, approdato piuttosto tardi, intorno ai trent'anni, dopo essere stato lavoratore manuale, alla musica come occupazione principale, il musicista "a piedi nudi" ha fatto in tempo, malgrado la morte prematura, che ha suscitato una grande emozione, a incidere profondamente nella cultura delle Antille francesi. Spiega Edmond Mondésir, intellettuale e musicista: "Nella leggenda di Eugene Mona c'è tutto un simbolismo del ritorno all'origine, del ritorno su sé stessi. E la sua musica non è forse l'espressione di un ritorno alla campagna, e attraverso la campagna all'Africa, ritorno mitico all'origine primaria? La nudità dei piedi è con ogni evidenza altamente simbolica del contatto con la terra.( ...) Sempre in termini simbolici si può capire l'attrazione che esercita il flauto (il flauto tradizionale di canna, n.d.r.). (...) In una certa epoca, nelle campagne e sulle montagne il flauto animava molte serate. Poi, poco a poco, ha taciuto. Con Mona è il ritorno del flauto, suonato in un modo che evoca tutto questo periodo precedente. (...) Bisogna ricordare che per un certo periodo il movimento musicale alla Martinica si è caratterizzato per l'emergere delle orchestre: allora si trattava di realizzare la musica più elaborata possibile secondo il modello delle grandi orchestre. La ricerca musicale si orientava nel senso del progresso tecnico, della padronanza degli strumenti, delle condizioni di registrazione e di diffusione, in sostanza di una certa modernità. Ma ecco che il percorso di Mona appare come l'espressione della volontà di un ancoraggio e di un radicamento più profondo". Quella di Mona, continua Mondésir, è una ricerca che si inserisce in un movimento di negritudine reinterpretato dalle giovani generazioni, che rivendica valori che esistevano sì, ma "senza essere riconosciuti, perché erano negati dagli altri e rifiutati da noi stessi. Per esempio, il creolo c'era, ma non riconosciuto come valore. Lo stesso per il tamburo e per tutte le forme di musica popolare, identificate come roba da 'vyé nèg' (vecchi negri, n.d.r.)" ("Karibel Magazine", cit.). Quella del creolo è una questione decisiva: "Lingua primaria per noi Antillani (...), è il veicolo originale del nostro io profondo, del nostro inconscio collettivo, del nostro genio popolare.( ...) L'assenza di considerazione per la lingua creola non è stata semplicemente un silenzio della bocca ma un'amputazione culturale" (Eloge de la créolité, cit.). Ma, aggiunge Mondésir, "Mona non fu il solo ad interessarsi al flauto e ai valori tradizionali. È che al di là del simbolo, c'è stata una vera identificazione di Eugene Mona stesso con la sua musica e il suo strumento. Si tratta in effetti di una creazione originale nella quale ci sono, formando un tutto, il flauto, i tamburi che lo accompagnano, lo stile della musica, i canti, la voce, l'aspetto scenico, i piedi nudi, il modo di danzare, il rapporto con gli altri musicisti e il dialogo con il pubblico. L'impressione di unità attorno ad un centro che ordina

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