Linea d'ombra - anno XII - n. 90 - febbraio 1994

22 PRIMADELLAPOLITICA comportamento etico, in senso secolarizzato: perché, come diceva don Milani, vi sono anche "coloro che scoprono se stessi, dopo morti, ·amici e benefattori del Signore senza averlo nemmeno conosciuto" 15 • Bori ha pensato pressappoco tutta questa situazione nei termini di un'alternativa, fra lettura secolare e teologica (il suo metodo comporta "la rinuncia ad ogni ausilio teologico"), tra etica e cristologia ("nella prospettiva che ho scelto non c'è posto per una 'cristologia' ... L'interesse essenziale è invece I'etica")' 6 • Ma l'etica da sola non si regge, perché in essa non vi è trasformazione, e nella prospettiva di Bori non sappiamo o non possiamo dire come renderla efficace (la Lettera ai Romani pesa a mio avviso come un masso su questa discussione): "Dirò comunque ... che operare secondo la legge è dono, e segno (sempre problematico) di fede e di grazia, e di elezione. Ma questo significa già penetrare in uno spazio teologico" 17 • Io invece cercherei (mantenendo il quadro di secolarizzazione e la ricerca interculturale) non solo dal lato delle norme, delle regole di comportamento, ma anche da quello delle forme o del le figure; perché la pratica del bene si radica in una condizione di morte o di rinuncia, ma questa condizione ha un valore universalmente umano - cioè, non appartiene soltanto al cristianesimo e forse neppure alla religione (''una morte simile alla sua" significa: una morte socialmente vergognosa, subìta nell'atto di dare testimonianza alla verità e senza speranza di una rivincita mondana). Questo potrebbe essere il significato dei Quaderni: la ricerca di una cristologia non ecclesiastica, che supera, nel suo movimento di risalita, la teologia vittoriosa dei primi secoli per interrogare fonti ancora più antiche, voci religiose e filosofiche che erano state soffocate dal potere di Roma. È evidente cioè (basta rileggere la conclusione della Nota per la soppressione dei partiti politid 8 ) che l'oggettivazione dottrinale e il carattere universalmente normativo del dogma cattolico parvero sempre a Simone Weil non una comunicazione di verità ma un esercizio di autorità; e che le varie testimonianze preromane o anche precristiane che sembravano riferirsi al Cristo (greche, egizie, ecc.) possedevano ai suoi occhi il privilegio di provenire da popoli vinti, da coloro che erano stati presenti nella storia non per la forza delle armi ma per la fragile ricchezza della loro cultura. Da questo punto di vista si presenta oggi un nuovo compito, che qui può essere soltanto indicato: una comprensione "politica" dell'universalismo religioso dei Quaderni. È chiaro che questi scritti, prodotti durante la seconda guerra mondiale in una condizione di estremo isolamento, avrebbero dovuto servire alla riconciliazione di tutti gli uomini sulla base di una cristologia interreligiosa o interculturale; essa nasceva quindi dalla guerra, o meglio dalla consapevolezza ormai raggiunta che tutte le antiche ragioni di accordo (che sono poi quelle moderne: il dominio scientifico della natura, il mercato mondiale, il diritto internazionale, l'estensione a tutto il pianeta dei principi democratici nati in Occidente) non erano, e non sarebbero mai più state, sufficienti. 5. Negli ultimi anni, il rapporto fra religione e politica è profondamente cambiato. L'adeguamento della religione al mondo moderno, quindi l'accettazione di alcuni principi fondamentali di questo (la democrazia, la libertà di coscienza, il metodo scientifico, ecc.), sembrò, almeno dalla seconda metà dell'Ottocento, la condizione più generale del fondamentale contributo che il cristianesimo poteva e doveva continuare a fornire al la civiItà occidentale. Occorreva semplicemente sconfiggere alcuni nemici comuni delle moderne società laicizzate e del vero cristianesimo, in particolare il soprannaturalismo, il dogmatismo, il clericalismo; e la collaborazione, ormai traballante, avrebbe potuto riprendere. Ma da qualche anno noi osserviamo, con crescente preoccupazione, un mondo sconvolto. La guerra, la fame, la rovina di tanti popoli, e insieme la necessità di confrontarsi, materialmente e culturalmente, con tutti costoro, la precarietà della vita su tutto il pianeta e dunque anche della nostra, tutto questo fa apparire la questione di un cristianesimo "moderno" (con tutti i valori illuministici e progressisti che vi si trovano implicitamente affermati) come una questione particolare, che ci riguarda forse da vicino in senso storico o biografico, ma che non ha più alcun particolare diritto di cittadinanza nella nostra cultura. E comprendiamo retrospettivamente che questo problema è sempre stato il problema di una certa borghesia intellettuale, numericamente ristretta e ormai ben caratterizzata dal punto di vista storico. Credo che il terreno, su cui oggi religione e politica possono incontrarsi, non sia affatto quello dei principi illuministici eventualmente condivisi, bensì quello di una assunzione piena della propria corporeità, che finora è rimasta estranea al discorso. Parlare con qualcuno, oggi, parlare veramente e seriamente con un altro uomo, significa assumersi consapevolmente una responsabilità circa la corporeità propria e altrui, circa le condizioni materiali all'interno delle quali avviene il dialogo. Se questo non succede, è perché il discorso politico è falso, e così naturalmente anche quello religioso. Il tema della corporeità è sempre presente nell'opera di Simone WeiI, se si pensa ad esempio al ruolo della sofferenza e della sventura (che non è tale se non è anche fisica), alla sua cristologia e teoria della croce, al significato del lavoro. È difficile trovare un autore, o una autrice, in cui il dolore fisico, le diminuzioni, le lacerazioni (si ricordi l'attenta descrizione delle ferite nell'Iliade, così amorosamente ripercorsa da Simone Weil 19 ) abbiano tanta parte, e soprattutto siano riconosciuti come compagni necessari del pensiero. Alla nostra sensibilità tutto questo risulta significativo per la semplice ragione che, noi e lei, pensiamo in tempo di guerra. La Weil parla continuamente della fisicità del pensiero; perfino l'amore di Dio è mediato per noi dall'obbedienza all'ordine del mondo, alle leggi di natura che rappresentano per noi la sua volontà. Dolore e sventura sono d' altrondeancora obbedienza alla necessità, e possono essere trasvalutati dalla contemplazione dell'ordine come bellezza del mondo. Tutto il pensiero della Weil è fondato sul corpo, è pensiero del corpo e attraverso il corpo; in questo senso vi è una politicità che può affermarsi come pensiero della fame, dell'esclusione etnica o religiosa, della malattia o del carcere. Quando Simone Weil scrive che i vinti sono più vicini alla verità, intende precisamente questo: coloro che sperimentano la sconfitta nella propria carne. 6. Concludendo, vorrei ritornare con alcune osservazioni al concetto weiliano di compassione. La Weil può avere ragione a rivendicare, contro Rousseau, il carattere "inrtaturale" ("contro natura") della compassione, e a intenderla come qualcosa che è concesso dall'alto, la cui essenza è soprannaturale; può avere ragione a pensare la compassione come un movimento impossibile (dal punto di vista della natura). Però esiste una via naturale alla compassione; il che non vuol dire che Dio non se ne possa servire per insegnarcela (vuol dire che anche altri, che procedono laicamente, possono percorrerla). Questa via ha una struttura di soggettooggetto, cioè si presenta quando Io sventurato, che potrebbe essere oggetto, da parte nostra, di considerazione distaccata (uno dei tanti), ha per altri motivi un ruolo eccezionale nella nostra vita, sicché noi non possiamo (non eticamente o religiosamente, bensì naturalmente, istintivamente) sottrargli del tutto la qualità di soggetto. Si consideri ad esempio la parabola del figlio ritrovato: si tratta di uno sventurato che è anche figlio, che non potrà mai avere, agli occhi del

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