l'umanità (la Weil scrive anche: vi è un Dio vero, che trasforma la violenza in sofferenza; e un Dio falso, che trasforma la sofferenza in violenza). Però naturalmente, spontaneamente, la compassione è impossibile; nessuno accetta di identificarsi, di confondersi per un momento con la sventura altrui, anzi ne fugge spaventato; nessuno vuole guardare la condizione umana come qualcosa di radicalmente precario, soggetto alle circostanze, e preferisce sfuggire nella menzogna9. Tutto ciò rappresenta anche una trattazione originale (etica e religiosa) del classico tema metafisico dell'essere e del nulla. L'attenzione che l'uomo, nella compassione, dedica ali' altro uomo colpito dalla sventura, è una attenzione creatrice, perché fa esistere ciò che, almeno come individuo, aveva già raggiunto i confini dell'inesistenza. Nessuno osserva quel mucchietto di stracci abbandonato sulla strada che invece attira l'attenzione del samaritano. Oppure, in un altro senso: la pietà si rivolge a una categoria (malato, carcerato, ecc.), ma in questo modo il singolo individuo, preso come caso astratto di una forma di sventura, viene ricacciato nell'anonimato, nell'inesistenza. La pietà autentica, che solo Dio presente in noi ci permette di praticare, imita l'azione creatrice di Dio stesso; è un abbassamento, una perdita di sé nella materia e nel mondo, un'accettazione della sventura 10. Quindi il movimento di pensare ciò che non esiste, o meglio di rivolgere a ciò che non esiste un interesse intenso e affettuoso, è il movimento che, in Dio come nell'uomo, dona l'essere, illumina la ricchezza del reale - e insieme fonda la possibilità della vita sociale. 4. Se dunque assumiamo l'azione gratuita e particolarmente il suo centro, che è la compassione, quale esperienza religiosa fondamentale, ci troviamo di fronte ad alcune domande che non possiamo PRIMADELLAPOLITICA21 Uno scena del dramma di Simone Weil Veneziasalva con lo regio di Luca Ronconi. eludere né risolvere molto facilmente. Anzitutto: il conflitto con la "dimensione religioso-sacrale della fede" (Gaeta), oppure la "lettura secolare delle scritture ebraico-cristiane", nel senso della ricerca interculturale e interconfessionale sostenuta da Bori nel suo librogià citato 11, richiedono che il nucleo dell'esperienza religiosa si concentri nel!' etica oppure nella cristologia? In altri termini la cristologia è un fattore dogmatico di divisione, un rimando al soprannaturale e, nella gerarchia mondana, un inevitabile richiamo all'autorità di interpreti e custodi privilegiati? E poi: esiste una confluenza, una convergenza, nella pietà, di espe1ienza religiosa ed esperienza politica? Alla prima domanda ho tentato recentemente di rispondere nella recensione al libro di Bori. Secolarizzare significa "salvare l' essenziale" (e in questo senso non possiamo e non dobbiamo, noi che viviamo nei paesi cattolici, prescindere dall'esperienza protestante, specie da quella dell'Ottocento; è quello che voleva Bonhoeffer e vuole Bori sulla sua traccia), ma che cos'è propriamente l' essenziale? Che cosa significa, se seguiamo Paolo, essere uniti al Cristo "con una morte simile alla sua"? 12Questa frase sembra alludere a qualcosa che si realizza nella sfera delle forme, delle figure. Vi è anzitutto la figura, presente in molte culture e religioni, dell'innocente perseguitato, del giusto sofferente, come sono Giobbe, Socrate, Edipo. E poi il ruolo del dolore, o meglio della sventura (penso alla definizione che ne dà Simone Weil, anche con riferimento al Cristo) 13, soprattutto se associato alla funzione di verità (alla testimonianza) e all'esclusione o alla marginalità sociale, alla vergogna14.Sono elementi universali ma anche tipicamente cristologici, che permetterebbero di pensare la trasformazione, che è alla basedel
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