16 SCUOLA UNO STRANOMOVIMENTO DI NORMALISTUDENTI SantinaMobiglia È uno strano movimento di normali studenti - si potrebbe dire parafrasando in tono minore un tema di fine anni Settantaquello che agita le scuole italiane negli ultimi mesi. Più disorientati che entusiasti, più rispettosi che irruenti, poco inclini a considerare gli insegnanti loro avversari, i ragazzi del '93 appaiono molto cambiati dagli anni caldi: chiedono l'autorizzazione per autogestirsi, garantiscono un'impeccabile pulizia dei locali occupati, ci tengono a definirsi apartitici e apolitici - anche quando individualmente non lo sono affatto-perché più che un nuovo soggetto si sentono un movimento di cittadiniutenti teso a rivendicare il diritto a un funzionamento migliore, più efficiente e diverso del l'istituzione scolastica. Non combattono la "scuola di classe" né "l'autoritarismo del sistema", main consonanza con la polarizzazione dominante tra vecchio e nuovo - denunciano il carattere "giurassico" della scuola italiana, vetusta nelle strutture e insopportabilmente lontana, nell'impianto didattico e culturale, dalla complessità della vita contemporanea. Edilizia cadente e inadeguata, attrezzature carenti o sottoutilizzate, rigidità soffocante delle procedure mista a inerzia amministrativa, avvio quanto mai sgangherato dell 'anno scolastico, sono i motivi immediati e diffusi di una protesta che ha poi trovato la parola d'ordine unificante nel "no alla privatizzazione", con cui è stato identificato senza esitazioni il progetto legislativo di autonomia scolastica. Nei fatti, l'annuncio dell'autonomia, che potrebbe segnalare una qualche ripresa di attenzione politica per la scuola dopo decenni di immobilismo, si accompagna a passi poco incoraggianti, come il taglio delle classi, le sperimentazioni dal basso (dunque propriamente "autonome") soffocate a favore di quelle pilotate centralmente dall'apparato ministeriale, e infine una prospettiva - colpevolmente tardiva - di elevazione dell'obbligo a costi zero e in classi sovraffollate, in un paese che ha i tassi più bassi di scolarizzazione e più alti di dispersione fra le società sviluppate. Dunque il nuovo, al pari del vecchio, non trova consensi. Ma non temono i giovani, non appassionandosi all'autonomia, di fornire involontari puntelli al carrozzone centralistico, questo sì veramente giurassico, dell'apparato ministeriale, fonte massima delle disfunzioni croniche che affliggono la scuola? (per una puntuale e implacabile messa a nudo dei perversi meccanismi burocratici che lo regolano, è consigliabile la lettura del recente libro di un preside milanese, A. Pacchiano, Di scuola si muore, Anabasi, Milano 1993). Non sarebbe auspicabile chiedere più autonomia, anziché contrastarla? Certamente sì, ma quale? Non si può imputare agli studenti di non saper trovare il bandolo di una matassa tanto ingarbugliata. L'autonomia.che si prospetta in concreto non sembra convincere nessuno. Non piace alle associazioni dei presidi - pure non insensibili alle sirene della managerialità-; suscita le reazioni negative dei più autorevoli pedagogisti italiani, che si sono pubblicamente espressi con un documento fortemente critico; provoca diffidenza, non solo per timori corporativi, presso gli insegnanti. I provvedimenti in corso di attuazione (Legge finanziaria per il 1994) o in discussione (Legge-quadro di riforma delle superiori approvata dal Senato) sollevano opposizioni o riserve più per ciò che non dicono che per ciò che prevedono, limitandosi a disegnare un'esangue cornice di modelli gestionali, con ampie deleghe attuative affidate a successivi decreti di futuri imprevedibili governi. Le parti relative alla riforma di piani di studio e programmi - comprese nel testo di legge del Senato - sono destinate ancora una volta a cadere, insieme all'elevazione dell'obbligo a sedici anni, con la fine anticipata della legislatura. Resta lo stralcio dell'autonomia, densa di ambiguità e reticenze non solo perché sganciata da concreti progetti di innovazione strutturale e didattica, ma anche sul piano strettamente amministrativo, dove è destinata a convivere con il sempiterno apparato gerarchico che conosciamo, dal Ministero ai Provveditorati. Se in un interessante intervento del 1990 (ripreso da "Reset", n.l, dicembre 1993) Sabino Cassese prefigurava un piano drastico di estinzione dell'apparato amministrativo della scuola, non ne compare traccia nei provvedimenti del governo di cui pure è ministro. Difficile sfuggire all'impressione che, dopo tanto dibattere di progetti di riforma (come è il caso della scuola superiore) e grandi progetti di nuova organizzazione mai andati in porto, si corra in fretta e furia a varare l'autonomia gestionale (non a caso attraverso lò strumento della Legge finanziariaJper indifferibili ragioni di cassa. Come dire: lo stato darà meno soldi; per far fronte alle spese di funzionamento le scuole sono libere di stipulare convenzioni locali con enti e soggetti non meglio identificati, nonché di aumentare le tasse di iscrizione. Il vago cenno a uno stanziamento statale perequativo non basta a fugare i timori di chi prevede forti disparità nel reperimento di fondi aggiuntivi fra le diverse scuole e aree del paese, tra i licei pre tigiosi dei grandi centri e le scuole medie delle periferie degradate. Qui scatta l'allarme contro la privatizzazione, termine in sé eccessivo rispetto al contenuto tecnico delle nuove norme - giacché non si prospetta di cedere o appaltare a "privati" la scuola pubblica - ma metafora del progressivo disinvestimento di risorse pubbliche nella scuola, e slogan paradossalmente quasi legittimato dall'enfasi ideologica con cui, sul fronte opposto, si caricano di valenze ridondanti, al-
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==