68 SCRITTRICI ragione, le madri sgobbano e piangono e urlano sempre a senno. E male aveva fatto suo fratello grande Oreste il giorno che le aveva urlato contro a sua volta, e se ne era andato sbattendo la porta. Chissà dove andato, poi, chi l'aveva più visto nei tanti, nei lenti mesi di primavera, e adesso nella caldissima estate. Su una brutta strada sicuramente, sempre ragione aveva la madre. Ragione dunque anche a ripetergli sette volte al giorno che sarebbe finito male. Con quegli amici, poi, con quel carattere tutto preso dal padre. Ma perché non fermarsi almeno allora, Oreste: il tempo di raccontare a lui in due parole perché se ne andava, e dove, e fino a quando. Con Oreste dormjvano sempre insieme. Lo tormentava e lo comandava. Se lo portava qualche volta dietro, imponendogli il silenzio con tutti, all'avanspettacolo e sulle sue impalcature di muratore nella lontana periferia. E un giorno ogni tanto a Frascati, con lo stesso trenino, nella stessa casa con giardinetto e pergola sbilenca. Sotto la pergola si sistemava lui, Paolino, a guardare le nuvole dietro l'uva e ad aspettare annoiato con le mani in tasca. Oreste gli ordinava di girarsi contro il muro e addormentarsi immediatamente, o gli avrebbe di sicuro tagliato le orecchie, tutte le volte che infilava al buio nella stanza comune una ragazza. E lui stirava tutti i tendini per sforzarsi di rimanere fermissimo come pretendeva il fratello. Per farsi dimenticare e dimenticarsi lui stesso di sé, gelato in una posizione sbagliata dentro al suo letto improvvisamente scomodo. E intanto pensava che non c'era rimedio, non avrebbe potuto dormire mai in quella posizione. E come gli era venuto in mente di irrigidirsi così con le gambe stese, mentre soltanto raggomitolandosi e lisciando il lenzuolo sotto al mento sapeva che riusciva tutte le notti a prendere sonno. Sarebbe arrivata la mattina, e l'avrebbe trovato ancora lì sbarrato e rigido. Risentito, più che spaventato. Forse, lentissimamente, poteva provare a girarsi. Il rumore del lenzuolo smosso non era un vero rumore, arrivava soltanto a lui che ci si muoveva dentro. Poteva girarsi di nuovo finché voleva, che sciocco a non averci pensato prima, tanto non lo sentiva nessuno avvoltolarsi. Ma quando più si rassicurava, arrivavano invece violentissimi insulti dall'altro letto, e minacce a voce soffocata. E lui si gelava subito di nuovo, un'altra volta scomodo e tirato. ln qualche modo finiva per passare anche quella notte. Sempre ragione aveva sua madre. Lo sapeva, lo vedeva. E così Oreste sarebbe forse finito davvero male. Era anche giusto, dopo quello che faceva a lui, e che lui non diceva. Ma Paolo sperava senza crederci che non troppo lontana sarebbe stata la regione di quella sua futura mala fine. Non troppo oltre, comunque, l'ultima fermata del trenino: dato che nella direzione di Frascati, in tutti casi, lamala strada doveva passare. Per poterci, magari a tappe, arrivare anche lui con la bicicletta. Se Oreste non si fosse ricordato, l'imprevedibile Oreste cui poteva capitare anche di ricordarsene, di tornarlo a prendere come per il passato con sé. E forse Paolo avrebbe allora urlato. Avrebbe avvertito e tirato come poteva indietro il fratello, prima che fosse troppo tardi. E forse invece sarebbe stato a guardare senza avvertirlo. Perché era giusto che ci fosse almeno lui, a guardare. E non ne avrebbe parlato, dopo, in nessun caso a nessuno. Il Fra le molte ragionevoli cose che aveva dunque detto la madre, pensava il ragazzino pedalando, c'era una frase sul grande imparare che si fa col lavoro. E la frase, l'aveva capito, doveva servire a consolare lui della scuola brutalmente interrotta da un giorno all'altro; e perdi più in un difficile momento di passaggio, in cui gli pareva di stare finalmente imparando a capire la logica dell'analisi, le equazioni. Imparare si imparava davvero. In un giorno e mezzo di lavoro lui sapeva già a memoria una sfilza di nuovi nomi di strade. Nomi, credeva, garibaldini: quasi tutti che finivano in O o addirittura in IO, e almeno sette o otto che cominciavano per B. Perché poi tutte quelle B? Che lettera curiosa, rifletteva: lenta, gonfia, un po' stolida. Assai poco rivoluzionaria. Elegante, invece: gli venivano in mente certe cifre in corsivo inglese sulle lenzuola, a casa dei nonni, tonde, in rilievo, nel difficile punto pieno. Le cifre di una Beatrice, di una Bianca. A toglierla da quel lenzuolo e metterla in piedi, quella B era già una figura maschile. li ritratto, con marziali pugni sui fianchi e preferibilmente equestre, dell'uomo per cui andavano ricamando e pungendosi in cima alle dita le Beatrici e le Bianche. B come baffi, mustacchi divaricati e rigidi. Come barba, e non poteva allora trattarsi che di un pizzo fluente, B come busti: i busti sul Gianicolo col naso rotto e gli occhi lisci scarabocchiati a matita. Spalle e teste compiaciute e grasse: una trentina di rispettabili bottegai di mezza età e qualche impiegato ministeriale. Non certo soldatini, redentorini e ricci figli di mamma dal generoso colletto della camicia aperto e dalla bocca rossa: come i carbonari nei libri di storia. Come quel poeta inglese zoppo e innamorato di sua sorella, messo lì eternamente di profilo dentro le antologie. Queste garibaldine strade di cui sapeva ormai tutti i nomi esaurivano una fetta consistente del suo quartiere. Un quartiere nel dormiveglia perché non interamente rinsaldato e ripopolato, soprattutto nei piani alti, dopo gli sfollamenti della guerra. Nella mappa mentale di Paolino, decentrata com'era, la maggior parte di quelle strade non entravano neppure. Altre, gli era capitato fino a quel momento soltanto di attraversarle. Da cima a fondo, non le aveva percorse mai. Potevano, per quanto ne sapeva lui, sboccare in un fossato come in un parco mirabile, con luci, cigni e fontane. Un altro ritaglio di strade, un po' marginale rispetto alle gi!_ribaldine,Paolo le svoltava e le scendeva invece senza bisogno di guardarsi intorno. Non erano neppure vere strade. Erano piuttosto l'alzato di un reticolo di relazioni irregolare ma fitto. L'abitudine le soprannominava con i fatti e con le facce di una vicenda privata. La via dove abitava l'ammirato cugino maggiore a Paolino di due anni: già con la strusciatura dei baffi intorno alla bocca e con la ragazza fissa. La casa della compagna di scuola più brava di tutti, ma balbettante e tristissima. Il portone della giovane zia che viveva da sola, cucinava soltanto dolci e usciva tutte le sere d'estate con un rosso rossetto, i capelli buttati da una parte e lo stesso vestito chjaro. Costretto a contare i numeri delle porte uno dopo l'altro per rintracciare gli sconosciuti clienti del suo negozio, il ragazzo Paolo si accorgeva di guardare ora in alto per la prima volta. Contro sole, facciata per facciata, su su fino all'irregolare seghettatura dei cornicioni. Notava cancelli mai visti, sdorati, sdipinti, sempre tronchi di qualche voluta. Si soffermava su macchje larghjssime di muffa, su intonaci gonfi, cadenti, caduti. Si meravigliava di non avere osservato ancora quanti, e quanto larghi, fossero i muri ciechj coronati di cocci di vetro. Ci sentiva, a volte, abbaiare dietro furiosamente un cane. Scorciando meditabondo dal basso le case, gli si infilavano gli occhi attraverso finestre ancora sfondate, passavano lungo travature mozze e curve, riuscivano a volte djrettamente sul cielo attraverso i buchi nel tetto. Sbattevano, altre volte, contro barriere impenetrabili d'alloro, che difendevano l'attico di gente con soldi. Dietro all'alloro, non ci si limitava certo a risanare le lesioni dei bombardamenti, pensava Paolo: ma si murava e si vetrava nello stile delle nuovissime riviste d'arredamento americane, su cui aveva visto sospirare anche il suo depresso padrone. Respinto dall'alloro e ridiscendendo, lo sguardo seguiva regole generali di gravitazione. Cadeva a spirale, per attrazioni contingenti di altre masse, a sinistra e a destra. Rimbalzava oltre le ringhjere dei terrazzi. Atterrava momentaneamente sopra a uno spampanato rosaio rampicante, sbucato certo da ombrosi, ordinati giardini di monache. Si pungeva contro certe palmette ispide e rade, non annaffiate da nessuno sul bordo di balconi vuoti. Lisciava le modanature assurdamente pretenziose dei portoni, e finiva per ricadere pesantemente sopra lo sporco marciapiedi. [...]
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