Linea d'ombra - anno XII - n. 89 - gennaio 1994

66 SCRITTRICI altra musica fu bandita da questa casa". Altrettanto esclusivo fu l'ascolto di Bach, soprattutto del Bach cameristico, nell'anno che precedette La Storia. Su questi interventi di opere musicali "nel cuore" dei suoi romanzi era avara di spiegazioni; non tanto, però, da non concedersi scoppi di confidenza improvvisi, e sempre come ricordi lontani, quando l'esperienza creativa s'era conclusa. Proprio allora, mentre più forte era l'arbitrio dei sentimenti, e più soggetto a equivoci, perciò, poteva rivelarsi lo spirito critico, ella dava prove inaspettate di percezione sicura delle forme, del loro intimo tessuto e della loro complessità. Vedeva l'opera 131 come un racconto articolato e sofferto in ogni sua particella sonora. "Non mi ha trasmesso solo l'estrema concentrazione, la rassegnazione e la luce - diceva - ma anche la difficoltà del cammino. L'Andante con variazioni mi ha insegnato per quali cerchi di fuoco bisogna passare per giungere fino in fondo." E in quei momenti il suo sguardo esprimeva la fatica, la sofferenza e insieme l'indicibile felicità del contatto. Un'esperienza come questa, in cui non era facile distinguere l'attività sensoriale dalla facoltà del giudizio, doveva conoscere anche il morso di improvvise lacerazioni. Di una di queste - I' ascolto del Requiem di Mozart durante gli effetti di una potente droga - parlava spesso come di un evento oscuro e terrorizzante. Diceva che la musica s'era come spogliata della sua essenza, che s'era ridotta a "una vegetazione inaridita o bruciata", peggio, anzi, "a un esercizio futile, compitato e servile", e che Mozart le era sembrato "un figlio che balbettava davanti a un padre crudele". Non riuscivo a capire perché desse tanta importanza a una contraffazione che ella stessa s'era procurata artificialmente. Eppure era così: accennando all'episodio si comportava come se Mozart non avesse superato una prova ultima e decisiva, e un gioco meraviglioso a un tratto si fosse infranto. Solo più tardi compresi che era inutile reclamare da lei una visione più realistica, e diciamo più "chimica", del cataclisma sonoro che l'aveva sconvolta; giacché quel modo di reagire non era che un' espressione della sua angoscia, come di una paura del buio e del silenzio, e offriva un'ennesima prova del carattere nutritivo, ferino e quasi corporeo del suo rapporto con l'arte. Anche un interesse tanto esclusivo, d'altronde, non si dava senza una spiccata socialità, senza un bisogno continuo di confronti e una tendenza a chiamar in causa dei testimoni, e magari ad affidar loro i dubbi e i travagli più acuti. In vario modo, per anni, Gabriele Baldini, Giuseppe Cupane, più tardi Luca Fontana, Ugo Leonzio e, credo, Franco Serpa furono interlocutori privilegiati della Morante in fatto di musica (e chissà quanta parte di questi appunti ciascuno di loro potrebbe integrare e correggere). Erano tutti intenditori squisiti, di gusti e temperamenti diversi, e - me ne diceva lei stessa - la consigliarono spesso in taluni ascolti. Non ne infransero tuttavia le resistenze e i divieti più netti. Si poteva avallare o rinforzare una predilezione della Morante, farle scoprire una cosa cui ella già inclinava, magari, senza saperlo (fu il caso di Giuseppe Cupane con i quartetti, di Luca Fontana, se non sbaglio, con l'accennata Messa di Mozart): in nessun modo si poteva indurla a imboccare un cammino a lei estraneo, nessun argomento, nessuna dottrina potevano persuaderla ad ammettere davvero nel suo recinto visitatori importuni. Gabriele non vi riuscì mai, che io sappia, col Puccini che tanto amava ed assaporava negli ultimi anni di vita; Franco Serpa non ebbe miglior fortuna col pur grandissimo Wagner. In certi casi era lei stessa che guidava il gioco delle scoperte, e allora illustrava con foga le ragioni profonde dei gusti e delle gerarchie dei valori. Poté farlo più volte con Pasolini, al quale consigliò le musiche del Vangelo e di altri suoi film, non senza effetti sullo stile e sull'impianto compositivo di alcune opere. Si deve ai suoi appassionati interventi, credo, una certa accentuazione espressionistica che la musica conferisce al racconto pasoliniano, e, in particolare, quella drastica convergenza di registri umili e alti che è come il segnale di una poetica, e in cui sembra di vedere uno sguardo d'intesa fra i due artisti ogni volta che le immagini e la melodia si congiungono. Penso-e mi tornano alla memoria i commenti della scrittrice - ad alcuni esempi famosi: l'attacco del coro Wirsetzen uns della Passione secondo SanMatteo nel momento della tragica zuffa di Accattone; le prime battute della Marcia jimebre massonica K. 477 durante alcune apparizioni di Cristo nel Vangelo; l'adagio introduttivo del Quartetto "delle dissonanze" K. 465, accoppiato - in una trascrizione per fiati - al rustico Tiresia dell'Edipo re; e ancora un altro adagio, dal Quartetto K. 458, ne Le mille e una notte, per dare maggior risalto (questa, almeno, sembrava essere l'intenzione) alla purezza e alla grazia di alcune sequenze amorose. Non ho mai assistito a una delle "prove d'ascolto" che si svolgevano, per lo più, nella casa di via dell'Oca; ma ne conosco l'intensità dai discorsi di lei, e mi son fatta un'idea chiara di quanta ragionata passione ella mettesse nelle sue scelte. Pasolini, certo, si riservava l'ultima parola, ascoltava attentamente, provava e riprovava le musiche; ma infine accoglieva i suggerimenti di cui l'amica era stata prodiga, al solito, come se elargisse dei doni, con quella sorta di magica tensione, con quella partecipazione gioiosa, autorevole e febbrile che ella destinava ai più intimi, e solo nelle occasioni di grande impegno creativo. C'è, a mio parere, un tragico nesso fra questa dedizione totale alla poesia come "evento" e la spessa coltre di nubi che s'addensò sulla vita della Morante nel periodo successivo alla Storia. L'esilio in cui ella volle ri11chiudersi negli ultimi anni non si comprende senza tener conto di quell'epoca di incontri intensi e rivelatori. I I suo drammatico isolamento nacque anche dalla forza di quel desiderio, che non finiva di consumarla in una realtà dagli equilibri ormai irrimediabilmente mutati. Si era alla metà degli anni Settanta e, da allora, ella non vide attorno a sé che un mondo inabitabile e ostile. Vide un teatro abbagliato da luci false, popolato di inganni, nel quale la fantasia, la forza del sentimento, il coraggio delle grandi emozioni arretravano sempre più davanti all'indifferenza e al gretto particolarismo sociale; una cultura urbana violenta, affannosa, stolidamente protesa a reiterare i suoi gesti invece che a inventarli; un costume che aveva spento le conversazioni tra gli uomini ed esaltava i messaggi confezionatiin serie, in un fitto brusìo di predicazioni quasi sempre sterili e vuote. In questo gelido infèrno non poté ritrovarsi. E nella solitudine che si impose - con una coerenza che non ha eguali, forse, nella cultura dei nostri anni - anche la musica, dopo qualche tempo, scomparve. Ricordo il momento in cui per la prima volta capii che non poteva più vivere. Fu un giorno d'estate di alcuni anni fa (ancora agli inizi della malattia che poi doveva lentamente stroncarla), quando, all'annuncio che le detti d'una nuova esecuzione delle Partite di Bach, mi rispose che "non sentiva più musica". Dicendolo, gettò su di me uno sguardo stanco, e però anche corrucciato e misteriosamente ferito, nel quale brillava come la scintilla di una regalità sconfitta. Quindi rimase a lungo in silenzio. In quegli istanti mi tornò alla mente la sua immagine vittoriosa: la gioia, lo stupore, la veemenza, l'ostinato candore che aveva messo per anni in tante nostre conversazioni. E le fui grato d'essere stata così. Ancora oggi mi rammarico di non aver saputo dirle, in quell'occasione, ciò che provavo per lei, e di aver taciuto a mia volta.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==