una certa continuità, anche al di fuori di progetti intellettuali precisi. Chiunque abbia avuto familiarità con lei può attestarlo. Quella presenza crebbe e si precisò, soprattutto fra il Sessanta e il Settanta, con l'aiuto di una ricca discoteca privata; contribuì al disegno o al concepimento di alcuni grandi romanzi; divenne l'oggetto di interminabili chiacchierate; segnò, a volte, perfino la nascita di importanti amicizie; di altre, magari per un giudizio discorde, poté avviare il declino. Va detto subito che la gerarchia di valori su cui si fondava questo interesse non aveva nulla di sorprendente. Le vere passioni erano poche e tenaci, e navigavano molto in alto, privilegiando, in sostanza, i vertici della tradizione classica: Mozart, anzitutto, e poi Bach, e infine, forse un gradino più sotto, il Beethoven dell"'ultima maniera". In quel supremo eliseo c'era poco spazio per altri, persino per i più grandi; vi abitò per qualche tempo Verdi, con autorità; Brahms, Chopin, Mussorgsky e pochi altri vi fecero apparizioni fugaci; lo stesso Schubert, misconosciuto per anni, faticò molto ad entrarvi. La forte selezione nasceva, io credo, dall'intensità del rapporto. Questo (ne ho ricordi precisi) aveva in sé a momenti qualcosa del raptus, dell'atto di possessione. Gli ascolti erano capricciosi, casuali, e però di volta in volta anche perentori, e in certo modo solenni, quasi li animasse un'incontenibile ansia di svelamento, un qualche rituale iniziatico. Il gusto della scoperta era una componente del rito: un evento che sapeva essere solitario, s'intende (doveva esserlo, anzi, almeno per una volta), ma che poi ambiva a manifestarsi nel modo più aperto, ed era narrato agli amici con l'impeto con cui si dà una notizia improvvisa e d'importanza vitale. I primi ascolti di alcune opere mozartiane mi furono trasmessi così: come repentine "illuminazioni", come "chiamate" o "avvisi da lontano" (erano parole sue) che suggerivano con forza verità altrimenti insondabili. Una sera, poco dopo la mezzanotte (doveva essere, credo, il 1965) la Sinfonia in sol minore K. 183, che allora ignoravo, mi fu descritta a telefono in un soprassalto di stupore e di ammirazione, "come una cosa che non si può tardare un istante a conoscere": con parole gioiose, dunque, ma anche un poco impazienti, quasi ella avesse frettad' interrompere in me uno stato di ignoranza colpevole. Anni dopo, l'annuncio di aver scoperto la Grande Messa K. 427, che invece conoscevo da tempo, mi fu dato sulla soglia di casa sua, mentre mi toglievo il cappotto, e questa volta con un velato rimprovero. "Sapevi di una cosa tanto grande - esclamò con rammarico - e non me ne hai mai parlato!", come se di proposito gliel'avessi tenuta nascosta. La scoperta di un'opera nuova s'accompagnava sempre, nei suoi discorsi, a un apprezzamento sull'uomo. Nella Sinfonia K. 183 ebbe gran risalto la precocità. "Già componeva in quel modo - soggiunse - ed era ancora un ragazzo!"; e lo paragonava a Rimbaud. Nella Messa ammirava "lo spirito religioso" del Mozart maturo. "Altro che apollineo e galante! - sbottò quel giorno - quell'uomo parlava direttamente con Dio." "Ecco - aggiunse - una cosa che i professori universitari non sanno." La passione, d'altronde, non le vietò di concedere spazio per brevi periodi alle grandi fatiche dei musicologi. Ma lo faceva a suo modo. T cinque volumi del Mozart di Wyzewa e Saint-Foix figuravano nella sua biblioteca, e alcuni passi vennero da lei consultati con cura, e perfino chiosati. Ciò le consentiva di esibire all'improvviso cognizioni minute su certi nodi biografici dell' artista, anche se in modo disordinato e casuale. In verità ella leggeva nel la monumentale monografia unicamente le cose che servi vano a confermare le sue certezze. Considerava Saint-Foix il sacerdote paziente di un tempio: il fatto che avesse illustrato l'opera mozartiana punto per punto, da K. I a K. 626, le sembrava un atto SCRITTRICI65 ArchivioVenlurini. di devozione sublime molto più che una testimonianza di metodo. Le stesse cose cercava in Dent, in Einstein, in Paumgartner; e se non riusciva a trovarle, abbandonava la lettura di colpo, con impazienza. Apprezzava, naturalmente, l'epistolario, che lesse da cima a fondo nella vecchia antologia curata da A. Albertini, ma anche, per meglio documentarsi, in più ampie e rigorose edizioni inglesi e francesi. La incantava, soprattutto, l'esuberanza affettiva di certe lettere: i passi più colmi di sensualità, compresi quelli dei giochi erotici con la cugina Thekla ("che - diceva - sembrano sciocchi agli stupidi e scandalizzano gli ipocriti"), li citava spesso come esempi di vitalità e di innocenza. E su questo la vidi anche andar in collera. Non lesinava frecciate ai detrattori del carattere e della figura umana del musicista, dei quali parlava, a volte, come di suoi personali nemici. Un amore così totale da includere nel suo fuoco persino gli eventi e le debolezze dell'uomo non ebbe tuttavia, per quanto possa stupire, nessuno dei vezzi tipici del mozartismo alla moda. La Morante voleva fare proseliti del suo Mozart, è vero, ma fiutava a distanza i luoghi comuni dei "raffinati" e degli "infatuati", e se ne ritraeva con sdegno. La sua passione, d'origine senza dubbio romantica (e non così alla lontana da non lasciarlo intendere nei discorsi e nella forma stessa del culto) era ardente, sì, ma non esclusiva; tanto che poté estendersi a Bach e a Beethoven con uguale intensità e costanza, e avventurarsi in territori tanto diversi anche per lunghi periodi. Mi confidò che non Mozart, il prediletto, ma unicamente Beethoven aveva "tenuto a battesimo" L'isola di Arturo. "Mentre pensavo a Nunziatadiceva - ascoltavo solo il Quartetto opera 13 l: per un po' ogni
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