Il contegno di Max verso l'oca inferma diventò prima smanioso, poi ostile. Quando si credeva solo la contemplava lungamente, accoccolato a terra, pallido e truce; in presenza altrui la sfuggiva. Io capivo benissimo: cos'è, anche per gli adulti, la vittima? Odio: è la faccia del rimorso. Specialmente se non si vendica è odiosa, specialmente se ci ha perdonato è imperdonabile. Più male le abbiamo fatto, più le portiamo rancore; noi amiamo solo coloro che ci ricordano le nostre buone azioni. Eppure, in certi momenti, chi sadi quale sazietà, una commozione ci invade. L'odio per la creatura del nostro peccato si trasforma in un impeto d'amore, e non importa se poco dopo quella voglia di rompere ogni attuale ingranaggio svanirà in un sorriso stanco, come di rassegnati alla vita mediocre. La mediocrità in fondo è saggia, comoda cosa, ma quegli attimi sono struggenti, hanno una luce, non so che luce, una fede. E se la dolce vittima si trovasse là, con quale pentimento la prenderemmo fra le braccia, d'improvviso offrendole tutto l'avvenire, e la stiingeremmo a noi con disperato traspo1to. Quando Max allentò la stretta delle bracci ne convulse ne cadde una piccola cosa soffocata. Egli si chinò pallido. La toccò con il piede, poi con un dito. Corse a cercare una lumaca e gliela mise presso il becco. Poi fuggì, incontrò Nello, il cameriere, gli disse: "Nello, l'ochetta non mangia più". Mia Madre, mia Nonna, i bambini ed io decidemmo di passare l'estate nel luogo meno dispendioso possibile. Poiché Max non sopportava la canicola cittadina si scelse un paesello in montagna detto San Pellegrino al Cassero, a metà strada fra Collina e i bagni della Porretta. Chi transita la bella via provinciale, tutt' asfaltata, che costeggia da un lato i boschi, dall'altro il fiume Limentra, questo San Pellegrino al Cassero non lo vede, e non perché il paese sia nascosto dagli alberi o dalle rocce, ma perché in realtà non esiste; c'è veramente una chiesa e qualche casetta in qua e in là, ma ciascuna distanziata, isolata, senza rapporti di strade né conclusioni di piazze. Noi s'era preso in affitto il primo piano d'una di queste case, costruita sul ciglio della via maestra, mentre a ridosso le incombeva la roccia selvosa. A piano terra stavano i padroni; dal nome del padrone la casa si chiamava "Casa d'Abramo". C'era Abramo, e la moglie d'Abramo e le sue tre figlie, in una grande cucina ordinatissima dove ardeva sempre il fuoco e quelle donne stavano sempre zitte. A San Pellegrino le femmine non cantano. Gli uomini sono lenti nel gestire e nobili, come di bronzo, ma così taciturni che le loro donne restan sommesse. In p1incipio tutti quei silenziosi sembrano corrucciati e colmi di sprezzo; ci si accorge però che, se soltanto due su cento delle nostre domande ottengono risposta, è perché le altre novantotto sono inutili. A poco a poco s'impara a far meno domande, poi ci si abitua adire le parole indispensabili e si constata quanto siano poche. E infine, cadute le chiacchiere dalla nostra vita come da un corpo le vesti, così ridotti possiamo capire che il silenzio di quella gente non è orgoglio né inquietudine; è una disperazione atavica, una rinunzia congenita a esprimersi per la favella. Ma il fiume non tace mentre fra le verdi prode va trasparendo e raggiando al sole sui candori, sui gialli, sui cilestri dei grandi sassi levigati, e una vegetazione d'impeto, felice di linfa e tutta fremito, copre dalle basi alle cime i monti, che - a destra e a sinistra, serrando il fiume e la strada - divaricano in due formidabili barriere. E poiché anche le donne son floride e belle, la cupa impassibilità dei maschi opprime, suscita non so quale ansia, come se la loro forza attendesse per esplodere occultamente, per servire chi sa che segreti. Tre o quattro volte la settimana passavano barrocci carichi di SCRITTRIC6I 1 vettovaglie; ci si riforniva così. Ma se il tempo era cattivo non passava più nessuno, e addio. Avevamo lasciato Nello in città a sorvegliare la casa; e poiché la famiglia era composta di persone anziane e di bimbi, toccava a me andare in cerca di cibo. Uscivo nelle prime ore del pomeriggio e m'incamminavo verso il lontano bacino di Pavane; la strada era quasi sempre deserta, ma una volta feci tre incontri: un giovane che, seduto sulla spalletta del fiume, stava lì, atono, guardando l'acqua correre, mentre con le mani distratte fletteva un giunco coi:itroil ginocchio. Più giù, le gambe nel fosso, la schiena alla roccia un vecchio giallo come un avorio con gli occhi di vetro verde; un a~orio sporco dal tempo, la patina addensata lungo le rughe e nell'intreccio delle dita. Infine vidi una casuccia dall'uscio semiaperto: quest'uscio, di un verde indimenticabile, smagliante al sole, proiettava la sua ombra sul quadrato interno del pianerottolo, tagliandolo in due triangoli esatti, dei quali uno splendeva così caldamente da farne apparir l'altro umido e scuro. Al ve1ticedel triangolo opaco una donna giovanissima stava su una seggiolina; per il gesto curvo una ciocca di capelli biondi le ricadeva su una guancia; poggiava il mento alla mano, il gomito al ginocchio, teneva gli occhi aperti ma spenti, con la stessa immobilità del vecchio e dell'uomo sul mwicciolo. Al ritorno, già tramontava il sole, li ritrovai tutti e tre al loro posto; prima vidi la ragazza, poi il vecchio, poi il giovane: la ciocca cadente, le mani intrecciate, il giunco flesso; l'identica positura, il medesimo sguardo: tre statue. Vicino a casa nostra abitava una donna paralizzata dall 'encefalite; verso il crepuscolo la mettevano fuori a prendere aria. Ella mi apparve in cima alla salita come il monumento del luogo. Mi capitava d'arrivare a buio, le strade là non sono illuminate, non c'è difesa contro le tenebre, si è sommersi; le barriere dei monti, il rumore del fiume invisibile, dolente; per chi non abbia il cuore puro, essere presi da un tal buio è cosa tristissima, è cosa senza misericordia. Da molto tempo in me abitava il dolore. La mia salute non reggeva più, l'esaurimento mi attaccava il cervello. La mia vita, al di là della stanchezza, in un paesaggio di stupore, era immobile e stagnante; e nel torbido di quella desolazione ramificavano gracili tormenti, angosce puerili. A che cosa era ridotta la mia fede in Dio! Se avevo mormorato un "requiem" passando dinanzi a una certa casa che portava quest'iscrizione: "Fermati o passeggero e qua mirate un requiem per carità non lo negate qui morì... " e non avevo invece detto nulla per l'altro morto, di cui si narrava assai più goffamente come in quel punto fosse precipitato dalla motocicletta nel fiume, allora la notte, alla finestra, gli occhi contro le tenebre, dicevo doppio requiem, triplo requiem per il dimenticato; poi non volevo trascurare i miei propri morti e ancora risalivo agli sconosciuti, mi perdevo in preghiere rifacendomi da capo se m'ero distratta. A volte quell'oceano di morti veniva squarciato dal passaggio di una macchina; il mio essere vi s'aggrappava per un attimo; la seguiva delirando fino alla svolta. Poi era il silenzio: un franare, un risvegliarsi. Serpeggiava, nella perplessità di certi miei risvegli, il presentimento viscido d'un pensiero che, ancora non delineato, s'insinuava in me fisicamente, oscuramente.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==