54 GIRI D'ITALIA boratorio mai chiusa perché inchiudibile, l'unica vera "opera aperta" della nostra letteratma e nello stesso tempo ambizioso e riuscito tentativo di "romanzo totale", nel suo precario equilibrio, davvero tipico delle avanguardie, tra senso della storia e tensione alla dissoluzione della storicità a ogni livello del testo. I lunghi elenchi di nomi, le citazioni esplicite e implicite presenti praticamente in ogni pagina, assolvono così funzioni opposte: da un lato costruzione di una tradizione in cui situare autori e opere, compresi se stesso e la propria opera, storicamente giustificata proprio a partire dai materiali di costruzione, identificazione di linee ereditarie ed evoluti ve; e dall'altro lato manifestazione di un sincretismo culturale che scardina le cronologie e le filiazioni dirette, creazione di un "tempo letterario" altro, unico, forsterianamente compatto. Un senso problematico della storia che ci rimanda alle maniacali genealogie stilate da Breton per i suoi manifesti su1Tealisti e insieme al concetto insieme attualistico e distruttivo dell'avanguardia benjaminiana. Questa tensione antistorica, che per essere tale non può che nutrirsi di storicità, si rifrange direttamente nella "vicenda del testo" arbasiniano, tramite una pratica di continua auto1iscrittura che non riguarda solo l'episodio cruciale di Fratelli d'Italia, ma praticamente tutti i suoi romanzi e persino la saggistica letteraria e civile. Il testo, insomma, non viene mai consegnato alla propria compiuta storicità, ma continuamente 1iscritto, 1iadeguato al progredire e al perfezionarsi dello stile dell'autore, alle sue più o meno contingenti passioni, ma anche ai più vasti mutamenti culturali. Arbasino dà quindi scacco alla storicità della propria opera proprio nel momento in cui la riconosce. Le successive stesure disegnano una storia, uno sviluppo diacronico, ma il corpus di quelle che sono via via le ultime stesme dà il senso di un'opera compatta, uniforme dal primo titolo all'ultimo, in definitiva atemporale. E se non bastasse, questo movimento dialettico finisce col diventare l'elemento strutturante delle singole prove narrative: come in Fratelli d'Italia, caso forse unico di romanzo di formazione a struttura ciclica, in cui la Bildung si nega nel momento stesso in cui si realizza, tornando, letteralmente alla situazione di partenza. Ma c'è forse un'altra ragione, una duplice ragione, che spiega perché, ancora una volta, Fratelli d'Italia. Alberto Arbasino ha taciuto, in quanto romanziere, per vent'anni, e ha spiegato in non poche occasioni, la sua impossibilità a raccontare un'Italia in cui non si riconosceva più, di cui rifiutava la cultura e le scelte politiche e civili, di cui contestava i fondamenti antropologici e la psiche collettiva. Fratelli d'Italia, allora, è un 1itorno all'età dell'oro dell'autore, agli anni del compimento di una lunga e ricca formazione, agli anni delle scoperte e degli entusiasmi (e basti leggere i saggi degli anni Cinquanta e Sessanta raccolti in quel capolavoro introvabile che è Parigi o cara per rendersi conto di quale entusiasmo e curiosità potessero essere capaci sia l'autore che il momento), gli anni insomma più raccontabili per Arbasino. Ma gli anni Sessanta sono anche lo snodo in cui si decide in Italia, nel bene e nel male, il nostro ingresso nella modernità, gli anni della scope1ta del benessere e dei p1imi vistosi sbandamenti della società politica, gli anni in cui si conclude pienamente il "dopoguerra", in cui si ve1ificano mutazioni culturali e ideologiche profonde in ogni strato della società. Arbasino, troppo giovane durante la guerra per pattarne i segni, è interamente figlio di quell'età e a quell'età ritorna anche per raccontare, e capire, quel che è successo dopo. SEMBRAFACILE, RACCONTAREILFREDDO AlessandroBaricco A me, Fatiche d'amore perdute (il romanzo scritto da Grazia Cherchi e pubblicato daLonganesipp. 173, L. 20.000) è sembrato, prima di ogni altra cosa, un libro coraggioso. Coraggioso in molti sensi. Alcuni accessori, e uno fondamentale. Gli accessori sono che se uno è un critico scomodo, severo e schietto come Grazia vuol dire che ha un sacco di nemici, e un sacco di gente che lo aspetta al varco: scrivere un romanzo è proprio come provocarli. È come aprire la gabbia del leone, entrare e chiudersi la porta alle spalle. Sono cose che, in genere, uno fa solo se è convinto di essere un grande della letteratura e di poter reggere lo scontro con il rancore altrui. Ma in Grazia non credo che ci sia questa tranquillizzante convinzione. Credo che lei pensi di aver scritto un bel libro, non un capolavoro. E che sia entrata nella gabbia non con la forza di una presunzione inattaccabile ma con l'incuranza di una felice irresponsabilità. Con un certo stupore e con sincero sollievo constato, comunque, che ne è uscita viva. Coraggioso, poi, mi sembra, sempre, scrivere qualcosa di ape1tamente autobiografico. Grazia ha fatto le cose senza mezze misure. Magari i nove vecchi amici invitati nella villa di campagna non sono proprio puntualmente dei suoi amici: ma la donna che li invita si chiama Grazia, ed è proptio lei, parla come lei, fa le cose che fa lei, cita Flaiano come fa lei, si muove, perfino, come lei (tendenzialmente invisibile). È un po' come entrare nella gabbia del leone e, non contenti, entrarci a mani nude. Terzo tipo di coraggio: il plot. I vecchi amici che non si vedono da anni, e poi si ritrovano e convivono per un paio di giorni un'unica casa, raccontandosi, scoprendosi, ecc. Questa storia è una storia che tutti, dico tutti, hanno avuto almeno una volta nella vita la tentazione di scrivere, mettere in scena, girare, insomma raccontare. In genere si viene bloccati da tre parole che vengono su come uno stop perentorio, quasi biblico: Ilgrandefreddo. Come si fa a raccontarla, quella storia, dopo che l'ha fatto, e in quel modo, Il grande freddo? Di solito ci si arena lì. Grazia non si è arenata lì. E devo dire che alla fine la sensazione da Grandefreddo ti scaldato non ce l'hai, e pensi: ci deve essere da qualche parte una differenza che rende sensato tutto questo, che ha dribblato il totem di quel film e ha trovato una strada sua. E poi c'è una forma di coraggio che sta a monte di tutte queste scelte, e che in certo modo suona come fondamentale. Il coraggio di risvegliare il proprio passato. Un passato ce l'abbiamo tutti: ma quelli come Grazia (quelli che "c'erano", negli anni Sessanta) ce l'hanno più degli altri. Gli sta addosso, li bracca, e li mangia ancora adesso, non ha ancora finito il grande pasto, è un passato infinito. Ognuno di loro, di solito, trova poi un modo personale di farsi digerire. E molti, così, riescono ad allestire un ottimo
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