Linea d'ombra - anno XII - n. 89 - gennaio 1994

sottopose (girò La signora di Shangai per ripagare il produttore del laColumbia HarTyCohn dei 50mi la dollar·i che gli aveva chiesto per salvar·e uno spettacolo tratto dal Giro del mondo in 80 giorni di Verne con musiche di Cole Porter); del!' amore assoluto e totale per Shakespear·e; dell'inseguimento durato tutto una vita per portare sullo schermo il Don Quisciotte; dell'avventura produttiva con Charlton Heston per L'infernale Quinlan; delle divagazioni televisive ... Welles a volte collabora, a volte cerca di evitare le risposte convinto com'è che "le prediche dell'autore non dovrebbero mai essere troppo evidenti", a volte cerca adduittura di ribellarsi o di nascondersi dietro il proprio humour (a Bogdanovich che chiede le ragioni di un particolare secondario di una scena, risponde con una vecchia storiella yiddish: "Un anziano signore ebreo sta morendo in una pensione gestita da una irlandese; è a letto, e si è girato verso il muro. La padrona va a cercare un prete, che arriva con tutti gli oggetti sacri e comincia: 'Credi nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo?'. E il vecchio: 'Sto morendo e questo mi fa gli indovinelli'"). Ma alla fine del Libro viene da ringraziare la pedante insistenza dell'intervistatore perché la mole di informazioni che è riuscito a strappare dalla memoria -e dal cuore - di Welles non ha eguali, dal suo odio per Antonioni e le lungaggini del suo cinema (che ti "amrnanisce un'intera ripresa di una tale che cammina per la strada. Uno pensa, be' non voiTà seguire quella donna fino in fondo alla strada. Ma lui lofa. Poi la donna esce fuoricampo, e continuiamo a guardare la strada vuota"), alla sua esigenza di riscrivere le battute e le scene dei film che interpretava, dal suo amore per i cornici (Laurei e Hardy cui "nessuno ha mai dato il riconoscimento che meritano", W.C. Fields che a teatro lo faceva ridere così tanto da dover stare a letto tutto un giorno, Harold Lloyd il più sottovalutato, Jerry Lewis "un dono celeste quando va troppo in là, insopportabile quando non ci va") alla sua passione per la magia. Oltre naturalmente ad aneddoti e informazioni su tutti i propri film, dal progetto incompiuto di Cuore di tenebra (1940) fino a La storia immortale ( 1968), che poi vengono integrate in appendice dalla più accurata ed esauriente ricostruzione della biografia wellesiana mai pubblicata ( 176 pagine redatte con passione e intelligenza da Jonathan Rosenbaurn che vi aggiunge anche la sceneggiatura della versione integrale, .e ormai persa, degli Amberson). Ogni tanto Bogdanovich cerca di far parlare Welles delle questioni centrali della propria carriera - il rappo1to tra cinema e realtà, il ruolo del regista, il suo statuto d'autore-e Welles, che ha sempre dichiarato di non credere agli autori perché "ci sono solo opere", cerca abilmente di cambiare discorso. Ma è proprio qui che esce meglio la sua grandezza, la sua statura da gigante in un cinema di nani: a chi dovesse insegnare come si fa il regista cinematografico, Wel !es ricorda, citando Shakespeare, che i I regista non può che "porgere uno specchio alla natura". Per rispecchiar·e quello che vede? No, per capire il mondo che lo circonda: "Se non conosci qualcosa della natura alla quale porgi il tuo specchio, quanto sarà limitata la tua opera! Più la gente di cinema si tJibuta reciproci omaggi, più s'inchina ai film invece che alla realtà, e più si approssima all'ultima scena della Signora di Shangai: una serie di specchi che rimandano riflessi. Un film è il riflesso dell'intera cultura dell'uomo che lo fa; la sua educazione, la sua conoscenza degli uomini, il respiro più o meno ampio della sua comprensione, tutto questo informa il film". E ancora: "Non esiste la 'cultura cinematografica', Peter, solo un enorme mucchio di film. Bisogna 'tenersi aggiornati', naturale, ma con tutto il vasto mondo, non solo con i film. Dobbiamo scoprire tutto il possibile su questo posto in cui ci tocca vivere - su questo posto nel tempo - ma dobbiamo stare attentissimi, secondo me, a non diventargli troppo omogenei. Essere CINEMA ETEATRO 3S alla moda è certo segno che si è di second'ordine. C'è una coJTente p1incipale della nostra cultura, uno spirito del tempo a cui appaiteniamo, certo; alla fine, però, non saremo giudicati in base al grado della nostra partecipazione, ma in base alla qualità della nostra risposta individuale". Ecco, c'è già tutto: il ruolo dell'autore, le sue responsabilità, il rappo1to con il mondo e con il potere del mondo, il bisogno di rompere gli steccati della specializzazione, la condanna alla non omogeneità se non addirittura alla solitudine, il bisogno del!' aitedi non appiattirsi sulla realtàma anzi di leggerla e interpretar·la (citando Renoir, Welles spiega la necessità di "iicordar·e alla gente che un campo di grano dipinto da Van Gogh può suscitai·e emozioni più forti di un campo di grano naturale" e che "l'arte deve superare la realtà, diventare un'altra realtà, una seconda natura"). Di fronte a queste affermazioni lo scolaretto Bogdanovich dà spesso l'impressione di bai·collare, tanto sono lontane dalla sua idea di cinema (e spesso anche dalle domande che fa). Ma che ci sia una differenza incolmabile tra i due registi lo si capisce da subito, dalle pagine dedicate a Eduardo De Filippo di cui Welles ammira la genialità d'attore e di cui invece Bogdanovich stenta a capire la bravura. E per fortuna, altJ·irnenti il libro non avrebbe avuto il sapore che ha: il bravo intervistatore deve essere per prima cosa modesto per lasciare posto a chi ha qualcosa da dire. E anche di questo dobbiamo ringraziare Bogdanovich (che, come si spiega nell'introduzione, accettò che Welles, rileggendo le trascrizioni dei nastri non solo cambiasse le proprie risposte ma spesso anche le domande e le battute di Bogdanovich stesso!). Da una posizione diversa si mette inveceJamesNaremore, di cui esce in Italia la traduzione della nuova edizione (datata 1989)di un suo studio sulla carriera di Welles. Professore all'Indiana University, Narernore cerca piuttosto di spiegai·e il senso del percorso cinematografico del regista di Kinosha e lo fa senza scivolare nello specialismo o in una delle tante tentazioni della critica americana, troppo ideologica o troppo analitica o troppo innamorata di un metodo c1itico per vederne anche i limiti. Nai·emore, invece, si sforza di "istituire un legame fra la lettura analitica del suo stile da un lato e dall'altJ·o le sue tendenze politiche e il contesto sto1ico in cui ha operato": un Welles figlio del suo tempo (soprattutto di quelli di Franklin Delano Roosevelt del New Deal in cui si era formato), dichiai·atamente progressista e "di sinistra", ma anche attento- e qui sta soprattutto l'originalità dell'analisi di Nai·emore - al peso che i vari media avevano nella società americana e al modo in cui poteva criticai·ne o disarmarne il loro potenziale demagogico. Con una dovizia di informazioni e una profondità di analisi veramente ammirevoli (tanto che questo libro mi sembra la miglior analisi globale mai pubblicata su Welles), Nan;more ripercorre il suo cammino dagli anni col Mercury Theatre fino al suo arrivo a Hollywood e al suo successivo peregrinare tJ·a vecchio e nuovo continente, quando trasferisce sullo schermo quella capacità di piegare a fini espressionistici gli elementi della regia per "distruggere" l'omogeneità della messa in scena classica, così come aveva fatto con leregie teatrali o le trasmissioni radiofoniche. Recuperando le influenze che sulla sua formazione avevano avuto la ti·adizione del romanzo gotico e l'espressionismo tedesco, are more dimostJ·a l'abilità di Welles nel fondere la sua critica politica ai valori della società americana con uno stile che sapesse mettere in evidenza le novità di questo messaggio e costringesse lo spettatore a un'attenzione inusitata per i tempi (magistrali le pagine che dedica alla "radicalizzazione dello tile"). Tra l'analisi di un passato a cui Welles non concede mai inutili nostalgie (come in Quarto potere o negli Amberson) edi cui vede le tentazioni letali (come in Rapporto confidenziale) e la ricostJ·uzione di un presente di cui capisce le ambiguità (La signora di Shangai) o l'incubo (Il processo), tra una

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