Stato fino all'immagine dei "motivi che fanno vivere e agire l'individuo"). E anche come paradossale fede in un evento che però, anche se realizzato (e con esiti disastrosi), non potrà mai "popperianamente" essere falsificato. Eppure l'autore non mostra mai alcuna indulgenza verso la società del presente, a partire dalla denuncia del tradimento dei chierici, dell'avere cioè gli intellettuali abiurato la loro funzione critica (operante almeno dal '600), diventando così laudatori dei fatti compiuti, anzi dividendosi in due raggruppamenti: chi si accoda a tutti gli estremismi per non perdere il treno dell'avvenire e chi fa causa comune "con gli interessi stabiliti e riconosciuti" (i partiti, i poteri dello Stato). Il problema è insomma come opporsi all'esistente, per quali motivi e in nome di cosa. Giusti dunque i moventi della contestazione giovanile (esotismi e violenza a parte), ma la società industriale, ricorda Chiaromonte, è sostenuta non tanto dai capitalisti quanto "dalle idee stesse alle quali si appellano i pretesi sovvertitori", ovvero l'ideale della soddisfazione illimitata dei bisogni, la società dei consumi (un tema "pasoliniano" e impopolare, che l'autore svolgeva già nel marzo del '68). E, nell'estate di quello stesso anno, tenterà di affrontare in un lungo tormentato saggio la questione della non-violenza, tra la dottrina politica di Tolstoj e Gandhi e il messaggio evangelico, estraneo a qualsiasi preoccupazione di efficacia e destinato a uomini molto consapevoli, animati da una fede spirituale intensa, quasi febbrile. Nonostante tutto lo scetticismo verso l'applicabilità dell'imperativo cristiano (come amare infatti il proprio aguzzino, ciò che non è amabile?), Chiaromonte si mostra attratto da un modo di concepire la vita che consiste "nella fiducia che solo ciò che nasce, cresce e si forma secondo iIsuo proprio ritmo e la legge inscrutabile che opera in ogni cosa è vero e vale, mentre i mutamenti sono tanto più illusori quanto più repentini, violenti e totalitari". Assai di rado una tale radicata sfiducia (e diffidenza) nel mutamento, nella soggettività, si accompagna ad un atteggiamento politicamente non conservatore: come spesso sottolinea l'autore, da quei principi diciamo metafisici si ricava una lezione non di inerzia MAESTRI 19 (come molti di noi hanno spesso pensato, quasi vietandosi simili "cedimenti" del pensiero) ma di misura e di sobrietà. Anche se Chiaromonte ha una visione "protestante" della politica, che assegna cioè un primato al momento dell'impegno morale, della persuasione individuale, non per questo ci troviamo di fronte ad un pensiero impolitico e ineffettuale. Credo invece che una riflessione del genere ci sia molto utile in periodi bui come questo, diciamo di sconfitta storica, di fallimento di ideali e speranze collettive; se infatti ci rammenta ad ogni momento la "distanza immutabile" tra idee e realtà, o l' ineliminabilità nella vita sociale di imprevisto ed errore, d'altro canto ci abitua a pensare che la politica, la storia non sono un assoluto, l'alfa e l'omega della esistenza umana, e anzi non esauriscono in sé neppure tutta quanta la vita in comune. Mentre altre tradizioni di pensiero, pur nobili e assai agguerrite, ci abbandonano o ci lasciano impotenti nei momenti di difficoltà. Certo qui ci si richiama alle figure piuttosto solitélliedi Salvemini e Gobetti, alla necessità per il nostro paese di uomini che agiscono e pensano in termini di giusto e sbagliato, di vero edi falso. Ma sui rischi di configurare una morale "eroica", stoica, per minoranze illuminate, per gli happy few, vorrei soffermarmi poiché mi sembra unpunto assai delicato del ragionamento di Chiaromonte (e del nostro ragionamento oggi). Una critica che spesso è stata fatta alla cultura azionista e gobettianaè di essere élitaria, sussiegosa, portatrice di verità scomode ma incapace di comunicare davvero con le masse. Pensiamo ad esempio a Carlo Levi, a certo suo disprezzo per la massa piccoloborghese, per i "servi", per quegli "uomini qualunque" non ancora "persone" a cui il ritualismo fascista si confaceva pe1fettamente. Nella geniale bipartizione interclassista degli italiani in Luigini e Contadini che ritroviamo nel romanzo L'orologio, i Contadini vengono definiti attraverso un ampio spettro sociologico (dai contadini propriamente detti agli operai incorrotti e fino ad imprenditori e alla borghesia attiva) però poi alla fine si riducono a "piccoli gruppi di studiosi e di uomini attivi". Quando Chiaromonte non ancora trentenne scriveva, con enfasi giovanile, che "la vita vale di essere vissuta solo se in essa si affermano dei valori che la superano", solo se "ammettiamo la possibilità di rifiutarla", risuona nelle sue parole un'etica antica, di stampo umanistico, con qualche tratto però spiritualistico e signorile (e se la vita si accontentasse di sé, della sua nuda e immanente fattualità? forse non sarebbe più degna?). E così, voler sostituire Dio non con un altro assoluto (per quanto illusorio) ma semplicemente con lapiena e amara consapevolezza di unSisifo ostinato, può essere un messaggio lucido ma riservato a qualche cerchia di filosofi. Eppure sono convinto che l'intera riflessione di Chiaromonte, pure insofferente verso rivolte tumultuose, verso secessioni plateali, non ha un carattere e un esito éll·istocratici.A parte il fatto che in queste pagine non vi è alcuna aJJusione sulle élite intellettuali (che si sono massificate "addirittura prima delle masse") dobbiamo intenderci su cosa assumere per "individuo", per "coscienza dell' individuo". È vero che la situazione odierna della vita in comune(con le sue innumerevoli ervitù organizzative e burocratiche) "riguarda tutti: l'intellettuale più raffinato come il più modesto operaio". Ma è anche vero che nella società di massa "ci troviamo tutti ad essere, in certi momenti, degli individui dotati di sentimenti, bisogni, esigenze morali che non sono quelle della folla anonima". Ce1to,si tratta pur sempre di minoranze, ma non nel senso di circoli esclusivi di raffinati letterati che custodiscono i valori supremi: "quelli che hanno orrore della servitù ... non è detto che siano tutti... degli spregiatori del volgo". Sono invece minoranze irrequiete composte da uomini semplici, privi di particolari risorse culturali, che esercitano il proprio mestiere guidati dall'unico principio delle norme del
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