Linea d'ombra - anno XII - n. 89 - gennaio 1994

18 MAESTRI ILBUON CITTADINO. OSSERVAZIONI SUCHIAROMONTE Filippo La Porta Credo che Chiaromonte, che detestava fedi chiesastiche, scuole e adesioni dottrinarie fanatiche, rappresenti per noi un maestro di pensiero e di morale; umile e scettico, ma anche caparbiamente geloso delle sue verità "relative", come tutti i veri maestri. E dico questo pensando con rimpianto alla colpevole sordità con cui Chiaromonte (e altri di "Tempo presente", come Si Ione) fu accolto dalla generazione del '68, dai "movimenti" di allora (che invece gli prefe1irono "maestri" meno 1igorosi e più demagogici), e anche a una ce11adistrazione che ha accompagnato le ristampe dei suoi libri. Le ragioni di tale disattenzione sono molteplici, e spero si capiranno da queste brevi considerazioni. Vorrei però subito sottolinearne una: si tratta di un pensiero scarsamente "ornamentale" (non si rifugia mai in sofismi intimidatori e talmudici alla Cacci ari) ed' altra parte di non facile lettura (pur non essendo mai contorto mette insieme cose che di solito sono assai distanti: ateismo e senso di una Necessità cosmica, fatalismo e attivismo, avversione alla massa e prossimità alla gente comune, credere e non credere ...). Ma adesso indichiamo, anche in modo schematico, ipunti per lui fondamentali, che affiorano con nettezza da quell'immenso oceano di questioni e inte1rngativi che riempie i suoi libri: e cioè l'individuo, il rifiuto ali' utopismo, la refrattaiietà ad ogni retorica (e ad ogni entità astratta come la Storia, la Politica, la Società), il valore del senso comune, il sentimento dell'oscu1ità (e non trasformabilità) del fondo delle cose, la c1itica implacabile e aideologica all'esistente (critica che conserva sempre al suo interno una nozione di "misura"). E proviamo anche a vederli (e a commentai·li) più da vicino, facendo rife1imento soprattutto a due raccolte di saggi, Credere e non credere ( 197 l) e il libro postumo Il tarlo della coscienza (1992), che comprendono scritti dal '32 agli ultimi anni (e mantenendo sullo sfondo le considerazioni su arte e letteratura). Vorrei cominciai·e proprio da un suo carattere così poco "italiano" come l'assenza totale di qualsiasi retorica vacuamente estremista, vizio endemico del nostro ceto intellettuale al di là di ideologie o culture di appai1enenza (come ha recentemente mostrato Berardinelli, accomunando in tal senso Fortini, Calasso, Tronti e Zolla). Una retorica nefasta perché irreale, autogratificante, slegata dalla vita concreta: "La credenza si dimostra con l'esistenza che si conduce ... non con le professioni di fede". Chiaromonte diffida di chi paifa di Doveri Sociali, di Umanità (celebre la sofistica formula saitriana: "L'uomo è responsabile per tutta l'umanità"), di Tendenza del laStoria, anche perché per poter agire non vi è affatto necessità di tutte queste cose ingombranti e magniloquenti: "Il 'buon cittadino' del quale parlo può, per esempio, aver partecipato alla resistenza in odio ai nazisti, aver votato socialista o, perché no?, comunista dopo la Liberazione( ...) senza attiibuire al suo atto altro significato che quello di un obolo da pagare in buona fede alla confusione politica contemporanea". La stessa biografia di Chiaromonte testimonia limpidamente di ciò: senza infatti mai aderire a spiegazioni ultime o a imperativi sociali o a immani compiti storici l'autore si è sempre schierato dalla parte "giusta": antifascista, combattente in Spagna con i repubblicani, partigiano, e poi antidemocristiano e antitotalitaiio (in un ce110senso non si è mai trovato, proprio come il suo Malraux, "dal I~parte del vincitore") ... Tutto questo si riflette naturalmente sul tono, sullo stile: sobrio, conversativo (senza mai essere andante), di grande affabilità e cordialità comunicativa, vibrante ma refrattario a metafore e immagini troppo suggestive, a verità bell'e pronte e troppo smaltate (un altro eretico come Pasolini aveva invece il gusto e la capacità della provocazione massmediologica, e dunque poteva contare su una ampia audience). E, d'altra parte, Chiaromonte guai·da lucidamente gli elementi culturali e financo antropologici di cui consta nel bene e nel male la nostra ti·adizione nazionale (elementi rimasti immutati pe1fino dopo la bufera del fascismo): "generale indifferenza per ogni distinzione netta tra appai·enza e realtà", l'antepoITe sempre la vita normale, quotidiana (il fai·soldi, iIfantasticare) anche a catastrofi ed emergenze, il familismo (ad un ce110 punto il destino della Resistenza dipendeva dalle sorti della moglie di PaITi: se fosse stata aiTestata, infatti, il comandante della Resistenza si sarebbe arreso), l'assenza di ogni imperativo catego1ico, l'impossibilità di "impegnai·si senza riserve" in qualcosa, il giocare sempre su tanti terreni, l'essere pratici, realisti ma non efficienti. Forse il '68 rappresentò tra le altre cose una protesta, effimera e precaria, conti·o una parte di queste "leggi non scritte del comportamento nazionale" (madi ciò l'autore, scomparso all'inizio degli anni Settanta, poté avere solo una vaga percezione). Comunque un pensiero seriamente responsabile, legato alla realtà, dovrebbe sempre, nel nostro paese, tener conto di questo insieme di dati. In queste pagine si dichiara a più 1iprese invalicabile, e in certa misura "sacro", il confine che separa le idee dai fatti, i valori dalla realtà. In tal senso le uniche utopie accettabili sono quelle che si dichiai·ano tali, ovvero modelli senza obbligo né sanzione, che non rivendicano a tutti i costi la loro realizzazione. E di ciò ha ferma nozione il senso comune, una buona guida forse non nelle alte sfere speculative ma certo "nelle faccende che riguardano la vita in comune". E così è preferibile l'utopista platonico a quello rivoluzionario. Hegel, Montesquieu, Victor Hugo, Marx credevano nella Storia, nel Progresso, nella Dialettica degli Eventi, nella Rivoluzione: per loro "L'Oggi è il Domani, il senso della vita di oggi sta nel Domani". Pai1endo da tal i premesse l'esistenza diventa qualcosa di fantasmatico, di irreale, di inconsistente. Ma in particolare mi sembra sti·aordinariamente efficace quel passo in cui l'autore ribatte alla indignata e teatrale dichiarazione di Karamazov (fino a che ci saranno bambini che piangono ...) che in realtà "l'idea di un mondo senza bambini che piangono mi pare coestensiva di un mondo senza bambini affatto". Il desiderio pur generoso, utopistico, di eliminai·e a tutti i costi il male (e non il male storico, "addizionale" ma quello immedicabile, legato all'esistenza stessa) si è tradotto perlopiù nella rimozione del male. Non vorrei esagerare con le impietose autocritiche generazionali, ma prop1io chi voleva titanicamente cambiare il mondo si mostra alla fine totalmente estraneo ad un sentimento elementare come la cai·ità. A proposito del comunismo dobbiamo a Chiaromonte una analisi molto dura, acuminata (e anticipatJice) mai però conciliante o complice verso l'esistente. Il comunismo visto anzitutto oggi come "pai·odia" (del linguaggio progressista, di quello democratico, di quello della cultura in genere), incapace dunque di spiegare o illuminare davvero i fatti; e poi come religione settaria, come teologia fanatica, con i suoi articoli di fede tutti in violenta antitesi al senso comune (dal materialismo dialettico alla concezione dello

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