Linea d'ombra - anno XII - n. 89 - gennaio 1994

12 DESCRMREILMONDO Ben Okri PREGHIERA DAI VIVENTI L'ULTIJ\l\f\ CITTÀDELMONDO traduzionedi LouisetteDi Suni Ben Okri (Nigeria 1959), trasferitosi a Londra a 18 anni, continua a parlare nei suoi racconti e romanzi della miseria, della corruzione e della violenza politica che lacerano la vita individuale e sociale nel suo paese. il suo romanzo La via della fame, per cui ha conseguito il Booker Prize nel / 991, è uscito anche in Italia presso Bompiani. il testo che qui pubblichiamo è ripreso dal "Guardian Weekend" dell' 11 settembre 1993, dove recava il titolo A Prayer from the Living. Siamo entrati nella città dei morti al tramonto. Abbiamo girato di casa in casa. Come avevamo immaginato, era tutto distrutto, un deserto splendente di morte e di vita nascosta. I contrabbandieri di armi erano ovunque. Adesso, nel mondo regnava il caos più assoluto. I piccoli padrini, che mantenevano l'ordine con la forza, avevano razziato il cibo a noi destinato. Avevano intercettato i ponti aerei e i soccorsi, e distribuito la maggior parte dei viveri tra di loro e con quelli del clan. Non ce ne preoccupavamo più. Il cibo non aveva più importanza. Ne avevo fatto a meno per tre settimane. Ora i I mjo sostentamento è l'aria, e la ricerca. Ogru giorno, man mano che dimagrisco, vedo più cose intorno a noi. Vedo tutti i morti, ormru più numerosi dei vivi; vedo i morti, tutti morti per fame. Adesso sono più gioiosi; sono più felici di noi; sono dappertutto, e vivono le loro vite splendenti come se niente fosse successo, o come se fossero più vivi di noi. Più la fame cresceva, e più I i vedevo- i miei veccru amici, morti prima di me, afferrare mosche. Adesso si nutrono dell'aria luminosa, e guardano noi- i vivi-con tanta pietà e compassione negli occhj. Credo sia questo che i bianchi non possono capire quando arrivano con le loro telecamere e i loro soccorsi. Si aspettano di vederci piangere. Invece vedono che li fissiamo, senza elemosinare, con gli occhi ricolmi di tranquillità. Forse sono segretamente inorriditi dal fatto che non abbiamo paura di morire in questo modo. Ma dopo tre settimane di digiuno la mente non nota più nulla; si è più morti che vivi; ed è l'anjma - che se ne vuole andare - a soffrire. Soffre per la resistenza del corpo. La maggior parte di noi è già nell'altro mondo, ed è solo per la terribile forza e tenacia della vita che continuiamo a fissare questo mondo e le mosche. Abbiamo dovuto arrivare in città ali' alba. Qui erano tutti morti. Anche i cavalli e le vacche stavano morendo. Il puzzo dell'aria, nel suo orrore, non era più nemmeno sorprendente. Potrei dire che l'aria puzzava di morte, ma non sarebbe vero. Sapeva di burro rancido e di calore avvelenato e di cattive fognature.C'era perfino - ironico - un vago profumo di fiori. Le sole persone che non fossero morte erano i morti. Cantando in coro canzoni dorate, ovunque esultanti, continuavano a vivere la loro solita vita. Gli unici altri che non fossero morti erano i soldati. E combattevano tra di loro in eterno, combattevano per la carne moribonda della nostra terra. Si erano divisi in innumerevoli fazioni. Non sembrava gli importasse quanti sarebbero morti. Tutto ciò che contava era sfruttare al megljo i sinistri calcoli della guerra - cioè della morte - in modo da poter vincere la più importante di tutte le battaglie, quella per il possesso del favoloso cimitero che è questa terra, una volta bella e civile. I soldati non erano interessati a noi; e noi, che stavamo morendo, non eravamo interessati a loro. Eravamo venuti per cercare qualcuno. Io stavo cercando la mia famiglia e la mia donna. Volevo sapere se erano morti o no. Se non l'avessi scoperto, sarei rimasto attaccato all'ultimo, sfilacciato lembo di vita. Non morirò finché non avrò saputo dove sono i miei compagni. Morirò in pace se scoprirò che anche loro sono morti oppure in salvo, e non hanno più bisogno di me. In questa vita ogni cosa ci ha tradito: lo Stato, la storia, i I concetto di Dio, il futuro, il cibo, l'aria. La trama della vita è più sottile di quanto noi pensiamo. E alla fin fine non resta molto per distinguere i buoni dai cattivi, se non il modo in cui essi affrontano la morte. E anche questo non è del tutto vero. Ma forse, come popolo, abbiamo ormai troppa confidenza con la morte, e abbiamo dimenticato il miracolo della vita. O forse abbiamo dimenticato come amare. Non so come siamo arrivati a dimenticare, ma l'abbiamo fatto. Tutto ciò che ero riuscito a sapere mi aveva portato a questa città. Qui finisce il cammjno: se la mia donna, i miei fratelli, la mia famiglia sono da qualche parte, sono qui. Questa è l'ultima città del mondo. Al di là del suo cancello arrugginito, dove gli avvoltoi della fame volteggiano gioiosamente neIJ'aria, c'è il deserto. Il deserto si stende fin dentro il passato, la storia, fino al mondo occidentale e alla fonte di ogni siccità e carestia - l'imponente montagna del Non Amore. Dalle sue cime, la notte, i sinistri spiriti della negazione cantano i loro terribili canti che spremono l'anima. I loro canti ci rubano la speranza, e ci fanno gettare al vento ogni energia. I loro canti sono freddi e ci rendono sottomessi ali' evidenza della morte. Questa è la fine del mondo. Dietro di noi, nel passato, prima che tutto questo esistesse, c'erano tutte le possibilità del mondo, tutte le potenzialità di essere felici, di costruire un nuovo mondo, e di imparare ad amarsi l'un l'altro. C'erano tutte le opportunità per creare una storia e un futuro pieni di dolcezza, partendo da piccole cose se solo le avessimo viste. Maora,davanti a noi, ci sono soltanto le ca~zoni della montagna della morte, con il suo spirito silenzioso. E la negazione del tempo. . Ali' alba abbiamo girato per la città, aprendoci un varco tra quel che restava dei cadaveri. Dopo un po' la geometrica regolarità dei morti diviene familiare, perfino bella, nella sua semplicità. Tutto è chiaro. Cerchiamo i nostri cari meccanicamente, con gli occhi prosciu-

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