plica però un altro passo: percorrere il tragitto che conduce dalla psichiatria alla salute mentale, cioè non un cambiamento semantico, ma una profonda trasformazione tecnico-culturale nella quale, inevitabilmente, l'apparato psichiatrico dovrà rivedere - e possibilmente ridimensionare - il proprio ruolo. Tale trasformazione implica per gli psichiatri il cambiamento del principio del giudizio sul loro proprio operato. Infatti, ciò che gli opinion leader degli anni Settanta non avevano fino in fondo messo in luce è che questa modernizzazione potrà compiersi pienamente solo quando la psichiatria si libererà del suo retaggio "impressionistico" secondo il quale l'opinione soggettiva dell'operatore (ovvero la convinzione professionale sua e del suo gruppo di riferimento) rappresenta l'unico strumento di valutazione del proprio agire. Si tratta di un limite che conduce la psichiatria indietro nella sua storia fino alle radici incerte delle sue conoscenze scientifiche. Non solo i diritti dei curati, ma anche una moderna deontologia professionale dovrebbe invece comportare l'obbligo di una verifica scientifica dell'efficacia degli strumenti curativi siano essi psicofarmaci, psicoterapie, o interventi sociali. In fin dei conti si potrebbe affermare - estremizzando il concetto - che i manicomi continuano ancora ad esistere in tutto il mondo anche perché i sostenitori della psichiatria comunitaria non sono finora riusciti a dimostrare pienamente la maggior efficacia della propria operatività. Gli anni Novanta comportano dunque per la società psichiatrica italiana una sfida complessa ed affascinante: allargare il proprio punto di vista per comprendere meglio quanto sta accadendo ed accelerare la trasformazione interna per riuscire a rispondere alla crescente domanda d'intervento secondo criteri e strumenti scientifici più efficaci. Note I) L. Onnis ,G. Lo Russo (a cura di), Dove va la psichiatria?, Feltrinelli, MiIano 1980. 2) P. Crepet, Le 111a/a11ied lla disoccupazione. Le condizioni.fisiche e psichiche di chi non ha lavoro, Edizioni Lavoro, Roma 1990. P. Crepet, A. Piazzi, G. Vetrone, M. Costa (in corso di pubblicazione), Effec/s of occupational status on the menta/ hea/th of young ltalian men and TERAPIE FAMILIARI UNA "GUERRA"DURATADIECIANNI Silvana Quadrino Una" guerra" durata dieci anni. Più di dieci, anzi: in Italia si era cominciato a parlare di terapia familiare sistemica già negli anni Settanta. Ma è intorno agli anni Ottanta che l'intervento sistemico esce dal mondo ristretto degli addetti ai lavori e comincia - faticosamente - a diffondersi. Suscitavamo qualche diffidenza, bisogna dirlo, noi. terapeuti familiari. Qui da noi, la parola famiglia, come la parola patria, induce atteggiamenti di doverosa dissacrazione. E sospetto. C'era addirittura chi si chiedeva - seriamente - se fare terapia familiare fosse di destra o di sinistra. Ma poi gli attacchi venivano da entrambe le parti: mentre "da destra" ci accusavano di giustificazionismo d'uffico, di tendenza piagnona a dare la colpa di tutto agli altri (la famiglia, la scuola ... la società!), di sottrarre l'individuo alla responsabilità dei suoi atti, da sinistra arrivava l'accusa di elimjnare le contrapposizioni (la lotta) fra soggetti-individui-classi per sostituirle con fumosi concetti di corresponsabilità "di sistema"; la "circolarità", punto cardine dell'epistemologia sistemica, che toglieva significato alla interpretazione lineare dei fatti, ai rapporti causa-effetto, sembrava a molti sostanzialmente antirivoluzionaria. In realtà, i veri problemi erano altri, meno ideologici, più concreti. Innanzitutto, i rapporti con le altre - come chiamarle: scuole di pensiero? chiese? teorie?- in un'epoca in cui, salve rare eccezioni, l'intervento sul disagio psichico coincideva con l'intervento psicodinamico. Confrontarsi con un modello così forte, che dominava i servizi territoriali, non richiedeva solo la capacità di conquistarsi degli spazi, di convivere insomma. Vedeva giusto Luigi Cancrini che in quegli anni I scriveva, a proposito cieli' integrazione dei tradizionali modelli di intervento individuali con i modelli ecologici, sistemici: "Sarebbe del tutto inutile voler liquidare queste diffe94 renze come irrilevanti. [...] Anche l'organizzazione di serv1z1 centrati su un modello psicoanalitico non è, al momento, facilmente compatibile con quella di servizi centrati sulla ecologia dei disturbi psichiatrici". Differenze di approccio terapeutico e di organizzazione, ma non solo. L'intervento psicoanalitico, nato a partire dalla specialissima relazione fra un cliente che chiede, sceglie, contratta il rapporto analitico, e l'analista che utilizza quel contratto a fini terapeutici, trasportato sul territorio risultava stravolto dalla completa assenza di quel contratto; in più, si prestava a interventi normativi che producevano discriminazione e emarginazione piuttosto che recupero e benessere. Questo (quasi sempre) al di là della volontà stessa degli psicologi, non abituati - appunto - a tenere conto degli effetti dei loro interventi individuali sui sistemi che invadevano senza vederli. Le diagnosi si ribaltavano nella scuola, nelle famiglie con effetti devastanti; specialmente - ma non solo - quando riguardavano un bambino o un adolescente. Quello che noi chiamiamo sistema - ma chiamiamolo pure istituzione, gruppo, come volete - si impadroniva inevitabilmente della diagnosi, utilizzandola a suo modo, per i suoi fini. li senso di impotenza, la tentazione di arrendersi alle difficoltà, così frequenti nelle famiglie e nelle istituzioni quando un ragazzo, o a un adulto, manifestano il loro disagio psichico, diventava un'arma di di fesa, una giustificazione perfetta per iInon-cambiamento. Cosa ci possiamo fare, si dicevano ormai pacifica tigli insegnanti, ma anche i genitori. Tanto, ormai, il male era stato fatto: ma sì, nei primi mesi, nei primi giorni di vita, forse. Non restava che delegare tutto - compresa la speranza - al terapeuta e alla terapia. La terapia: due, tre, a volte quattro sedute a settimana. Incontri rari con i genitori, fatti soprattutto di silenzi sapienti del terapeuta
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