Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

a quelle dei loro genitori. Si pensi a quanti hanno finalmente vissuto l'esperienza di una malattia mentale senza dover subire l'orrenda sequela di stigmatizzazioni sociali che l'internamento manicomiale ha comportato per migliaia di cittadini. Si pensi, infine, a quanti tossicodipendenti hanno evitato inutili e dannosi ricoveri coatti spinti da una diffusa domanda di controllo e di espulsione sociale. Certo vi sono state le proteste dei familiari, le giuste recriminazioni di chi non ha trovato né accoglienza, né asilo, né ascolto ma solo trafile burocratiche e nuovi abbandoni. Eppure anche a questo riguardo, una breve riflessione è necessaria. La denuncia e l'indignazione per gli indicibili soprusi perpetrati nei manicomi è partita più dai tecnici "democratici" e da ristretti settori "illuminati" della società civile che non dai diretti interessati. Quante madri hanno dimenticato i loro figli tra quei corridoi puzzolenti e quei cortili cintati? Quante pensioni sociali e d'invalidità sono state trafugate da parenti avidi e cinici? Quante associazioni di fami I iari sono sorte per aprire quei cancelli e per denunciare quei crimini di pace? Poche, pochissime se le confrontiamo con quanto è successo dopo la riforma. So bene che queste domande sono in parte retoriche: il manicomio esplica una precisa funzione sociale garantendo, ad un tempo, l'isolamento del deviante e l'occultamento dei fallimenti e delle mal pratiche della psichiatria. Sarebbe superficiale pensare però che il manicomialismo sia solo il frutto della delega alla custodia repressiva: la richiesta d'asilo sottende anche un'esigenza di tutela del debole, di riparo dalla società e dalla famiglia. Ogniqualvolta questo aspetto è stato sottovalutato si è, difa110, praticato l'abbandono dei più vulnerabili e dei più indi fesi. La seconda e la terza domanda vertevano su problemi di grande complessità tra loro fortemente collegati: la prevenzione e la necessità della concezione di nuovi strumenti interpretativi. li primo rappresenta un aspetto deludente dell'esperienza riformista in quanto ne evidenzia la difficoltà ad interpretare il contesto sociale in cui si opera e la sua resistenza nei confronti della cultura empirica. Spesso il termine stesso di prevenzione è infatti stato travisato ritenendolo sinonimo di diagnosi ed intervento precoce o, addirittura, di prevenzione della cronicità, dunque di riabilitazione. Il punto di partenza è un altro: quanto dell'iceberg della sofferenza mentale viene "visto" dai servizi sanitari e psichiatrici? Molto poco. Infatti sappiamo che solo il I0% delle persone che soffrono di un disturbo psichico si rivolge ad uno psichiatra, mentre il medico di famiglia non ne incontra più del 50%. Dunque i casi sono due: o la maggioranza delle persone che soffrono di un disturbo mentale non si rivolge ad un servizio sanitario perché non riconosce la natura psicologica della propria sofferenza o i servizi non sono in grado di entrare in contatto con questo specifico bisogno. È comunque evidente che la psichiatria da sola non può prevenire il disturbo psichico se non in una piccola percentuale di casi e quando questi hanno già manifestato una sintomatologia rilevante. Ne discende che qualsiasi interpretazione della natura e della diffusione dei disturbi psichici debba necessariamente partire da questa considerazione che implica una presa d'atto di modestia scientifica. Tuttavia, la cultura psichiatrica non esprime soltanto una sua incapacità a relativizzare le proprie ipotesi conoscitive in rapporto ai limiti del proprio punto di vista, quanto anche una difficoltà a comprendere le possibili correlazioni con il contesto sociale più generale. Cerco di spiegarmi con due esempi. Il primo riguarda il fenomeno demografico. La crescita della popolazione anziana ed il calo delle nascite comportano effetti diretti anche nel campo della salute mentale spesso sottovalutati. Infatti, l'aumento dell'incidenza di disturbi psichici è, in parte, misura della crescita del numero degli anziani in quanto con essa salgono i tassi delle patologie correlate (demenze, depressione senile, disturbi cognitivi): in futuro dunque la salute mentale sarà sempre più una questione geriatrica. D'altra parte, il calo delle nascite comporta anch'esso rischi per la salute mentale: I' aumento delle famiglie nucleari (quelle con un solo figlio e senza la presenza dei nonni) implica che il bambino non solo debba crescere senza fratelli e sorelle - quindi più solo e senza il loro supporto affettivo - ma anche che egli - perdendo la presenza di più generazioni - smarrisca parte della propria identità famigliare, il senso della propria storia e delle proprie radici. Il secondo esempio riguarda gli effetti psicologici della trasformazione del mondo del lavoro e della crisi economica e sociale che stiamo attraversando. Si tratta di un problema vastissimo cui posso solo accennare rimandando l'approfondimento a qualche lettura più esaustiva 2 . Non vi è dubbio che in questi ultimi anni il mondo del lavoro abbia subito una radicale trasformazione: in una battuta si potrebbe dire che se un tempo il lavoro comportava fatica fisica, oggi produce per lo più affaticamento mentale. Tuttavia, ciò che è cambiato non è solo la crescente richiesta di prestazioni cognitive (attenzione, controllo, memoria), ma anche il contesto lavorativo: l'introduzione di nuove tecnologie, ad esempio, implica per il lavoratore più solitudine, meno supporto e solidarietà. Se a ciò si aggiungono gli effetti della crisi economica il quadro diviene più drammatico. Sia la paura della perdita del posto di lavoro-che fa sì che il lavoratore accetti condizioni sempre più precarie (crescita dei ritmi produttivi, calo delle garanzie di sicurezza) - sia l'acuita incertezza rispetto al futuro lavorativo producono una notevole crescita dell'esposizione al rischio psicologico. D'altro canto, una gran mole di ricerche ha dimostrato che la crescita dell'incertezza lavorativa e della disoccupazione costituisce un inequivocabile fattore eziologico di disagio mentale non solo per i soggetti direttamente colpiti: si pensi alla crescita del numero delle rotture dei legami affettivi nelle famiglie delle persone coinvolte dalla crisi economica (il numero delle separazioni e dei divorzi è in media quattro volte superiore a quello della popolazione di riferimento) o agli effetti sui figli (crescita delle condotte "a rischio" come fumo, alcol, droga o degli insuccessi scolastici e del conseguente precoce abbandono). Questi due esempi possono essere uti I izzati per interpretare la crescita dell'incidenza dei disturbi psichici nella nostra popolazione, soprattutto in alcune sue componenti particolari, come gli adolescenti. Si tratta di un fenomeno tutt'altro che trascurabile: in Gran Bretagna si stima che un bambino su quattro sia affetto da disturbi psichici. Naturalmente il termine "disturbi psichici" è utilizzato in questo caso nella sua accezione più vasta comprendendo sia i sintomi meno gravi (come l'eccessiva irritabilità, l'incapacità a concentrarsi e a riposarsi, la depressione lieve) sia quelli più preoccupanti (anoressia, psicosi, autismo). Ma il fenomeno più al I armante è l'incremento del disagio psichico registrato in questi ultimi anni: del 21 % tra i bambini dai I O ai 14 anni, addirittura del 100% tra quelli con meno di I O. Da quanto ho cercato di dire credo sia evidente che senza un'attenta analisi dei grandi cambiamenti sociali non si può comprendere pienamente la natura e la dinamica dell'incidenza dei disturbi psichici, quindi diventa difficile prevenirli, curarli o riabi Iitari i. Perché ciò sia possibile è necessario che la cultura psichiatrica italiana si liberi dalle vecchie diatribe sulle tecniche psicoterapiche o sulle modalità di classificazione dei disturbi psichici, superi le sue anacronistiche divisioni interne. Questa maturazione im93

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