Tutti i problemi etici nascono e trovano soluzione ali' interno di una filosofia. In assenza di una filosofia della medicina ogni medico, ammesso che non aderisca entusiasticamente alla religione dei Fatti e della statistica, darà tutt'al più risposte individuali più o meno sdegnate, viscerali e casuali: quindi perdenti. ' La riscoperta della filosofia costituisce oggi la principale sfida per la medicina e più in generale per la stessa difesa della salute dei cittadini. Un concetto di salute basato esclusivamente sui Fatti emarginerà forzatamente gli individui e i gruppi più sfavoriti. I primi segni di questa tendenza sono già oggi chiaramente visibili. DOVE E ANDATA LA PSICHIATRIA? NUOVEFRONTIERENUOVESFIDE Paolo Crepet Anche se non è facile raccontare che cosa è realmente accaduto in questi ultimi dieci anni nella psichiatria italiana né lo è descrivere le transizioni intercorse, di certo non si è trattato di un periodo qualsiasi. D'altra parte, un campo così strettamente legato al sociale non può non risentire della profonda trasformazione che ha scosso il nostro paese. Si potrebbe però obiettare che è sempre stato così, che ogni decennio produce e contempla le proprie lente metamorfosi. Tuttavia, gli anni Ottanta-differentemente da altre decadi - hanno decretato per la psichiatria italiana una crisi profonda, inferendone una netta dicotomia con la sua stessa tradizione scientifica, con la sua stessa storia. Non si tratta solo di ciò che la riforma del 1978 ha indotto ma di qualcosa di più complesso: relativizzare ogni novità a quella, pure importantissima, modifica legislativa significa far torto a quanto è accaduto, negare un'evidenza. Tuttavia, ciò che rende difficile giudicare complessivamente questo periodo storico e che fa sì che riassumere quanto è accaduto rischi di trasformare questo tentativo in un'operazione riduttiva e semplicistica è l'estrema frammentazione del campo in cui operiamo. Anzi, questo è proprio uno degli aspetti che caratterizza il momento attuale rispetto al dibattito culturale degli anni Settanta: basterebbe rileggere gli scritti di quegli anni per accorgersi di quanto erano frequenti le valutazioni ed i riferimenti generali quasi si avvertisse la necessità di correlare l'interpretazione del campo specifico con quella globale. Al contrario, oggi assistiamo ad una frammentazione di saperi e di pratiche dove il filo conduttore e perfino i11inguaggio comune sembrano smarri ti, dove la ratio appare calpestata da artificiali divisioni d'appartenenza. Del resto, il ricorso al vocabolario ipertecnico, il riparo dietro allo specialismo è spesso sintomatico - come sappiamo bene-di una grande paura, di una difficoltà a leggere il proprio ambito professionale come parte di un mondo più complesso ed articolato. Insomma, la psichiatria italiana vive più che mai una dilaniante crisi d'identità. Cercherò di interpretare tale transizione, pur nel breve spazio di queste righe, affidandomi alle previsioni formulate alla fine degli anni Settanta dagli opinion maker dell'epoca I e provando a rispondere alle stesse domande che i curatori di quel libro, Luigi Onnis e Giuditta Lo Russo, rivolsero loro. La prima domanda verteva sui destini della riforma psichiatrica. Dalla lettura di quelle testimonianze emerge la sensazione che il pensiero di chi pur aveva condotto in prima persona quelle battaglie ideali (penso a Basaglia, Jervis, Piro, Manuali) fosse pervaso da un generalizzato, per quanto ragionevole, pessimismo. In quegli anni, l'impressione dominante tra gli esperti - o, meglio, il loro presentimento - era che la legge di riforma 92 avrebbe banalizzato quell'idea di liberazione che aleggiava nella cultura del movimento riformista costringendola a divenire codice generico, trasformandola in luogo comune ideologico (ricordo che Basagli a in quegli anni amava citare Sartre quando affermava che "le ideologie sono libertà quando si pensano e prigioni quando sono fatte"). In altre parole, si riteneva che la riforma non potesse comportare di per sé un cambiamento culturale: il manicomio era destinato a durare in quanto perdurava il manicomialismo. I padri della riforma avevano dunque previsto quanto stava inesorabilmente per accadere: una parte della cultura asilare correva il rischio di "trasferirsi" nei nuovi luoghi di cura, diffusi in quel dove generico che chiamavamo "territorio", senza per questo essere obbligata a rinnovarsi profondamente. Né quei luoghi, per quanto nuovi e diversi, potevano costringere a mutare atteggiamenti radicati da decenni negli operatori e nell'opinione pubblica. Oggi, alla luce dell'esperienza, si può infatti sostenere che il passaggio dal manicomio ai reparti degli ospedali generali non assicura un miglioramento qualitativo quanto piuttosto un ridimensionamento quantitativo: in molti casi, quei "nuovi" servizi hanno assunto le sembianze di manicomi bonsai dove la distanza e l'incomunicabilità, che storicamente ha contraddistinto il rapporto tra curante e curato, sono state solamente miniaturizzate. Dunque, un destino prevedibilmente segnato quello della riforma? Non direi proprio. Nessuno può affermare, in buona fede, che il quadro organizzativo introdotto dalla riforma costituisca un passo indietro, non fosse altro per l'arretramento culturale e scientifico che ha contraddistinto la psichiatria italiana degli anni pre-riforma. Né si poteva pretendere molto di più da una disciplina così giovane (in Italia la psichiatria è nata come branca medica autonoma nel 1974, quando si è ufficialmente disgiunta dalla neurologia), ne tampoco si poteva prevedere un atteggiamento più innovativo e coraggioso da una classe dirigente amministrativa che doveva, proprio in quegli anni, cimentarsi nella gestione della neonata riforma sanitaria. Tuttavia, la previsione dei padri della riforma non è stata in grado di valutare adeguatamente quanto di buono stava già accadendo. Si pensi, ad esempio, a quanti bambini "difficili" venivano sottratti al destino infame delle scuole speciali ed hanno invece avuto la possibilità di un'educazione "normale" come quella di tanti altri coetanei meno problematici. Si pensi ai tanti adolescenti che, al primo insorgere di una grave sofferenza psichica, non venivano più destinati ai reparti accettazione degli ospedali psichiatrici (e rimanervi per anni) ma potevano concretamente sperare in un intervento più consono alle loro esigenze e
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