Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

'83/'93 - LA MUSICA NON SOLO CANZONETTE SOLITINOTI E PUNTIDI FUGA Marcello Lorrai Nella musica italiana degli ultimi dieci anni è forse apparso qualcosa la cui portata sia paragonabile a quella del De André a cavallo tra Sessanta e Settanta o degli Area di due decenni fa? Sembra proprio che la risposta debba essere negativa: se è vero per esempio che il decantato fenomeno delle posse non si è fino ad ora collocato allo stesso livello di maturità e di incisività. Ma non solo: provando a vedere chi nell'affollato ambito della canzone abbia occupato alla fin fine i piani più alti della qualità e dell'originalità (spesso non disgiunti dal più largo successo commerciale), i nomi da prendere in considerazione si rivelano di artisti già prima presenti e anzi saldamente insediati sulla scena. Per esempio ancora Fabrizio De André, in particolare per Creuza de ma (Ricordi, 1984); realizzato con il determinante contributo di Mario Pagani, un album che dell'uso del dialetto genovese ha fatto la chiave di volta di un calibrato equilibrio fra restituzione di significato ad un mondo locale e sua reinvenzione fantastica attraverso l'apertura a suggestioni musicali provenienti da altre sponde del Mediterraneo, a suon di ud e di buzuki: nella riscoperta sul piano artistico, in fondo, di un'identità portuale che per secoli, con la mediazione di merci esotiche, a Genova ha reso familiari, materialmente o nell'immaginario, paesi lontanissimi, un esemplare episodio di worldmusic, anle (di poco) litteram, che è rimasto per il momento ineguagliato in Italia. È grande world music, se la si guarda dall'esterno, la musica di Lucio Dalla, e per buoni motivi. Nel panorama di una canzone italiana che vive troppo di parole, e il più delle volte non eccelse, Dalla ha continuato a stagliarsi per una felicità inventiva e una capacità di commuovere che è innanzitutto musicale, e a imporsi con canzoni che possono vantare una straordinaria naturalezza e una immediatezza spesso travolgente. Di standard realmente internazionale, la sua musica esibisce nello stesso tempo una fisionomia inconfondibilmente italiana, si riallaccia su registri aggiornati ad una tradizione melodica e non ha bisogno di imitare nessuno. Sintomatica la fortuna incontrata da Caruso (Dallamericaruso, Rea, 1986), un brano ripreso recentemente, fra gli altri interpreti stranieri che l'hanno adottata, anche da Mercedes Sosa. Mentre si consolidavano in Italia, la notorietà e il prestigio di Paolo Conte hanno varcato i confini nazionali, specialmente oltralpe; sulla sua produzione, marcata, sia per quanto riguarda i testi che la musica, da una esacerbata sofisticazione, si allunga però l'ombra de Il'artificio, e incombe il peso di una replica un po' estenuante di atmosfere all'interno delle quali non si può alla lunga non avvertire qualche sintomo di claustrofobia. Meritano ancora di essere citati almeno due celebri "desaparecidos". Mina, che ha saggiamente amministrato, e continuato a dispensare con annuale regolarità, mestiere, temperamento, personale cifra interpretativa, senza ancora cessare di riservare soddisfazioni, anche per via di un repertorio che in certi suoi tratti bislacchi ha non l'ultimo dei suoi pregi. E, variabile impazzita, alle soglie del grado zero del senso (L'apparenza, Numero Uno, 1988), Lucio Battisti, nella sua eccentricità ironica e malinconica si è se non altro chiamato fuori dall'ordinarietà cantautorale e si 88 è smarcato dal clima di consenso alle magnifiche sorti e progressive degli anni Ottanta. Nel complesso comunque un orizzonte nel quale, il che è tutto dire, più clamorose delle novità sono parse eventualmente le prove di longevità (tra le più sorprendenti si pensi ad esempio anche a quella di Francesco Guccini, che ha trovato un nuovo affezionato pubblico nella generazione a cui appartengono gli adolescenti figli dei suoi ascoltatori degli anni Sessanta - Settanta). Ma intanto, chi è stato in grado di parlare ai giovani irrequieti? A quelli che non si potevano accontentare della nobiltà di una parte della canzone italiana, restii ad identificarsi nell'aspirazione alla "vita spericolata" cara a Vasco Rossi, scettici sul potere taumaturgico della "sana e consapevole libidine" di Zucchero Fornaci ari nella lotta al lo stress ed' altro canto non particolarmente inclini a seguire il consiglio di Franco Battiato "se ti senti male rivolgiti al Signore"? Anche per l'assenza di interlocutori adeguati, della statura appunto di quel caustico De André che un quarto di secolo fa allevava obiettori di coscienza, al servizio militare ai valori borghesi, all'alba degli anni Novanta alcuni settori giovanili hanno cercato di riempire il vuoto arrangiandosi a prendere la parola per proprio conto, in un tentativo generoso, che ha dato luogo alla proliferazione delle posse.Vezzeggiatoda molti, anche da pulpiti non tanto rigoristi, purtroppo il rap made in ltaly è sembrato fino a questo momento viziato da limùi che nell'insieme prevalgono sui pregi dei singoli risultati, fermo restando l'interesse di una pratica e di una socializzazione musicale dal basso. Anche se con tutti i rischi di semplificazione insiti in qualche osservazione telegrafica, non si può non notare, per esempio, la diffusa povertà derivativa, da modelli di importazione, dei canovacci musicali utilizzati, in una mimesi che tocca anche contenuti e atteggiamenti che oltreoceano assumono senso da uno specifico background e che non sono trasferibili a piacere in un contesto diverso; la pesante presenza dell'autorappresentazione nei termini di un antagonismo che prende connotati fortemente retorici, anche con l'uso di un abbondante robatrovato rivoluzionario, in parte inerzia fuori tempo massimo della stagione politica degli anni Settanta; la massiccia tendenza all'autoreferenzialità e all'autoconferma consolatoria. In definitiva il problema del rap italiano consiste nella sua mancanza di energia espansiva ed egemonica, di capacità di pensare le forme per comunicare punti di vista critici anche al di fuori di una cerchia minoritaria di giovani. Prima dell'emergere del rap, negli 'anni Ottanta si era intanto assistito al consumar i della vicenda del rock cosiddetto "indipendente", esauritasi senza sedimentare esiti artistici di speciale interesse, e il cui lascito è stato la consacrazione e il più o meno rilevante successo commerciale di qualche gruppo in particolare. La responsabilità del sostanziale fallimento di questa esperienza va certamente ascritta in gran parte alla mancanza per i gruppi, e sicuramente non solo nelle regioni più depresse, di strutture, sostegno e occasioni di confronto col pubblico, ma anche, e non poco, al pressoché esclusivo e

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