Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

FOTOGRAFIA TOTALE Antonio Biasiucci Bisogna partire da una consapevolezza di fondo sulle cause dei mutamenti che ha subito la fotografia nell'ultimo decennio. L'imponente presenza del sistema televisivo ha, senza dubbio, messo in crisi la fotografia sociale spingendola, a mio avviso, verso un'immagine vicina alla logica pubblicitaria: sfogliando una rivista, non si capisce dove finisce il servizio fotografico e dove inizia lo spazio della pubblicità. Molti operatori del settore - photo editor, art director, fotografi - hanno usato la strategia della spettacolarizzazione per rubare lettori al mercato. Il motto è stato: "Bisogna stupire a tutti i costi", che si tratti di minatori o di frigoriferi, non è importante. Si è creata una figura di fotografo senza un'identità ben precisa, perfettamente al servizio dei massmedia, una sorta di jolly, al quale si può chiedere di tutto senza minimamente preoccuparsi di che cosa lui pensi e che cosa voglia fare. Il "nuovo fotografo" utilizza spesso metodi e attrezzature molto vicine alla pubblicità, e questo approccio alla realtà è sicuramente più diffuso tra i giovani (ma non solo). Così è scomparsa la fotografia di vita. Finanche il minatore di Sardegna non si stupisce più quando il fotografo mandato dalla rivista entra nella miniera con megafari da studio, cavalletto ed assistenti. Lo stesso minatore è pronto a ubbidire ai comandi del fotografo-regista che spesso interpreta le manie di colui che lo manda. Di contro, il recente libro di Salgado sui mestieri del mondo, dove la fotografia di vita è presupposto fondamentale, stupisce tutti: perché non siamo più abituati a vedere un tipo di immagine che credevamo ormai sepolta. Molti dei giovani fotografi, nati col mito del fotoreporter e vicini alla grande tradizione del reportage degli anni SessantaSettanta, ma sicuramente propensi verso una maggiore consapevolezza del mezzo espressivo, si sono sentiti fuori luogo, fuori dalle regole del gioco. Costoro, spesso, lavoravano per una rivista che non c'era. D'altra parte questi dieci anni, caratterizzati da un edonismo applicato alla vita di tutti i giorni, dal crollo di molte ideologie, dall'avvento di un capitalismo senza regole che ha portato a un consumismo esasperato di cui oggi conosciamo le strategie corruttrici, ha prodotto una forte crisi d'identità. Ma anche i presupposti per un momento che io penso particolare. Da questo "humus" è nata una fotografia che si riavvicina alla memoria, all'intimo, e che attraverso le proprie radici culturali an·iva a quelle radici più profonde che appartengono a tutti. Come se la perdita dei valori avvenuta negli anni Ottanta obbligasse il fotografo a rimettere in discussione quelli preesistenti per cercarne altri più autentici per meglio interpretare il proprio tempo. E non è più l'analisi antropologica degli anni Settanta, che tendeva, giustamente, a documentare riti e costumi che andavano scomparendo, ma è uno sguardo più profondo verso le origini intese in un senso universale. Inoltre, il rapporto che è venuto a mancare coi massmedia, e quindi l'impossibilità di dare un contributo in quella direzione, ha spinto il fotografo (chiaramente io alludo a un fotografo che intende la fotografia come ricerca) verso un processo di "liberalizzazione" dell'immagine. Quando parlo di "liberalizzazione", alludo alle infinite possibilità, sia formali che contenutistiche, che lo strumento possiede, e quindi a una nuova disponibilità a sperimentare nuovi linguaggi e confrontarsi con altre forn1e espressive. Da un 82 punto di vista formale si tende sempre di più verso una geometria emotiva, dettata dal sentimento, anziché rifarsi a una geometria logica, spesso accademica. Mi auguro che ci si diriga verso un concetto di "fotografia totale", dove il fotografo potrà muoversi su un terreno più vasto, spaziando dal ritratto al paesaggio, dal nudo al reportage, per meglfo esprimere un concetto, un'idea: ci saranno sempre più fotografi ai quali chiedi: "Che genere di fotografia fai?" e loro non sapranno risponderti. SCUOLA ITALIANA Roberto Koch È indubbio che nel periodo passato gli spazi di pubblicazione per i fotografi autori si sono fortemente ridotti fino a quasi scomparire, ma è anche vero che forse, più che nel decennio precedente, si è assistito a una maggiore e più interessante presenza di fotografi giovani, bravi, e soprattutto consapevoli. I giornali, e in genere le case editrici, hanno adottato una strategia che non prevede spazio per la fotografia, soprattutto per quella giornalistica; si assiste peraltro a un aumento considerevole delle immagini sui giornali, ma stanno lì, in un certo senso, solo per farsi guardare come illustrazioni, senza altre funzioni che quella (e sembra di tornare indietro di molti anni) di spezzare l'ingombro del piombo. Nessuno vuole investire in competenze (come ad esempio un photo-editor) e, diversamente dalla grafica che ha definitivamente ottenuto e conservato un ruolo determinante nella fattura del prodotto-giornale, la fotografia sembra poter essere gestita da uno qualsiasi degli addetti ai lavori, giornalista o grafico non importa, con in più una sorta di carattere "punitivo" allegata alla funzione. In questo senso non fanno finora eccezione purtroppo neanche i quotidiani, anche se è al loro interno che si intravedono alcuni possibili segnali di cambiamento, a partire dalla presenza di direttori di una generazione più giovane, più inclini a trattare l' informazione, fotografica e scritta, come un tutt'uno. La fotografia di reportage, di r<J,cconto,di documento, data ormai per spacciata agli inizi degli anni Ottanta, si sta però prendendo in campo internazionale una grande rivincita. Trainata dal grande sforzo di Sebastiao Salgado nel suo racconto epico del lavoro dell'uomo alla fine del secolo (il più importante complesso di immagini di questi dieci anni), la fotografia sembra aver riscoperto una delle sue funzioni più vere e intrinseche, quella appunto del racconto, in modo autonomo e diverso dal cinema e dalla televisione, e molti grandi autori stanno vivendo, dopo anni in cui vigeva la regola del disimpegno, un nuovo ritorno al coinvolgimento, alla passione, alla fotografia "concerned" che ha fatto scuola negli anni Cinquanta-Sessanta. I fotografi italiani si sono almeno in parte riappropriati dell'orgoglio della loro professione, e anche se sul piano del lavoro vero e proprio sono molto lontani dalla maturità (specialmente in relazione alle battaglie- molte perdute-con gli editori), ora si parlano di più, e si vedono con più chiarezza i contorni di una scuola tutta italiana di reportage, che offre finalmente un ricambio generazionale ai grandi autori degli anni passati, da cui prende le mosse, ma in parte anche le distanze. In questo senso appare positivo un ritorno a trattare temi internazionali e italiani, senza il limite del provincialismo, ma con uguale interesse. ·

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