LA METAFORA DEL PROFUGO Emilio Tadini C'è una storia - un tema - che ho trovato dipingendo. Un tema che ho trovato proprio lavorando, voglio dire- qualcosa che prima non avevo pensato, che mi sembrava di non aver pensato neanche di sfuggita. È il tema del profugo. Nel 1985 mi avevano invitato, con altri pittori, a esporre alla Rotonda della via Besana, a Milano. Lo spazio era grande, e così io avevo preparato una ventina di quadri alti un metro e mezzo e larghi due. Non avevo in mente un tema preciso. Ma avevo incominciato a disegnare sulle tele con un certo entusiasmo. Era un po' come se tutte le tele ancora bianche, appoggiate ai muri dello studio in attesa di essere dipinte, mi garantissero che la storia - quale che fosse - avrebbe potuto andare abbastanza avanti, e svilupparsi abbastanza, e avere insomma davanti a sé tutto lo spazio e tutto il tempo di cui avesse potuto aver bisogno. Non avevo bozzetti. Io disegno molto, e tutti i giorni. Accumulo, su un tavolo molto grande del lo studio, strati su strati di fogli e foglietti disegnati. E, certo, questi disegni, anche del tutto approssimativi, mi servono sempre, in qualche modo, per i quadri. Ma non faccio mai un bozzetto da riportare, ingrandendolo, sui quadri. Così, anche allora, mi sono messo davanti a quelle grandi tele vuote con il carboncino in una mano e la gomma da cancellare nell'altra, e ho incominciato a disegnare, e a cancellare, cercando di pensare il meno possibile a un tema, a una storia- il che, forse, vuole anche dire che stavo cercando di far venire a galla, alla superficie della tela, in quei segni, la forma materiale di qualcosa che mi stava veramente a cuore. Ho disegnato un quadro dopo l'altro, li ho dipinti. Il colore, mi accorgevo, stava facendosi più mosso, più accidentato. Scomparivano certe zone di colore omogeneo di cui mi ero servito fino ad allora. Ogni tanto lasciavo che si mostrasse la traccia del gesto, nella pennellata. E anche gli spazi mi sembrava che si complicassero, che entrassero del tutto "naturalmente" uno nell'altro - seguendo, per così dire, l'andamento del racconto. È stato soltanto dopo aver dipinto un certo numero di quadri che mi sono accorto che stava venendo fuori quel tema di cui parlavo agli inizi, quel tema del "profugo". Allora, naturalmente, ho incominciato a pensarci. Mi sono venute in mente certe fotografie che avevo visto da bambino sui giornali - quelle file di gente in marcia lungo strade poi verose, quei poveracci che spingevano avanti carrozzine da bambino o si tiravano dietro carrettini pieni di cose e di pacchi, con in spalla altri pacchi, e fagotti, valigie, e intanto guardavano in alto per paura che qualche aereo venisse a mitragliarli ... Non "nomadi", non gente che si dava per scelta o per attitudine a quella dimensione dello spostamento di cui avrebbe parlato tanto - e in certi casi anche piuttosto fatuamente - la cultura di certi anni. Quelle erano persone che qualcosa e qualcuno aveva costretto a lasciare la loro casa, la loro città, il loro paese: e che, ostinatamente, stavano andando in cerca di un'altra casa, di un'altra città, di un altro paese. Non era forse, questa, la metafora, e molto concreta, di tutti 78 coloro che hanno dovuto lasciare certezze di ogni genere, e che hanno intravisto il niente- e che da questo stato di cose sono costretti a muoversi, sono costretti, insomma, giorno per giorno, a "progettare" il loro viaggio o addirittura il loro mondo? Dopo un paio d'anni ho dipinto sette trittici. E, questa volta, il tema e la metafora del profugo ce li avevo ben chiari in testa ancora prima di incominciare a dipingere. Oltre a tutto, avevo guardato bene i trittici di Max Beckman -quel lo straordinario pittore espressionista, profugo anche lui dalla Germania nazista negli Stati Uniti. E quella specie di scoperta mi aveva davvero emozionato e convinto e spinto a dipingere. Pensavo a qualche forma di allegoria - al modo in cui Beckman aveva saputo figurare personaggi in carne e ossa mettendogli dentro una fortissima carica di energia simbolica, facendoli muovere in una specie di teatro, di sgangherato Gran Teatro Mitologico Quotidiano ... Poi ho lavorato a una serie di disegni di grandi dimensioni. Si chiamavano Aux cieux vagues. li titolo è in francese perché soltanto in francese c'è quell'espressione, "terrain vague" - che vuol dire un terreno che è sì vuoto, senza costruzioni, ma che è anche destinato a qualche costruzione. Così, pensavo a qualche cielo vuoto e "da costruire". Che forse potrei anche azzardarmi a chiamare il cielo del profugo. La penultima serie di quadri che ho dipinto si intitola Oltremare. C'è molto blu oltremare, in questi quadri. Ma la parola "oltremare" evoca anche l'immagine di un paese lontano, di un viaggio. Torna molte volte, nei quadri di questa serie, scritta sulle tele, la parola "nowhere". Ancora una parola straniera, ma non avevo scelta. La cosa straordinaria di questa parola è che vuol dire, sì, "in nessun posto", ma che nello stesso tempo dentro di sé custodisce le due parole che vogliono dire "adesso" e "qui". Nowhere: now, here. Così, il viaggio verso quell'oltremare evasivo - tra personaggi anche quasi fiabeschi che sperimentano quello che si potrebbe chiamare l' instabile e instancabile equilibrio dell'acrobata-così quel viaggio finisce nel presente e nell'attualità, proprio "qui, adesso". L'ultimo quadro della serie Oltremare è un trittico che si intitola Soldati. È piuttosto sinistro, forse - pieno com'è di uomini armati in uniformi mimetizzate. Ma sono i nostri spaventosi visitatori di ogni giorno, questi. Gli ultimi quadri che ho dipinto si intitolano Atelier. Avevo in mente quel quadro grandioso che è L'Atelier di Courbet. L'"adesso" e il "qui" dello studio del pittore, anche. L'ultimo quadro di questa serie è un altro trittico. Gente arriva nello studio da tutte le parti. Nel pannello centrale ci sono le figure di mia moglie e dei miei figli, e una specie di autoritratto comico-grottesco, e una tela che si sta disegnando. Nei due pannelli laterali, altri soldati in tuta mimetica, da una parte - personaggi di varia provenienza dal l'altra.C'è anche un personaggio che ho dipinto pensando al Baudelaire che è raffigurato nell'Atelier di Courbet. Sta seduto su uno sgabello e legge un libro e si fa luce con una candelina che tiene in bilico su un dito. Mentre dipingevo i quadri grandi di Oltremare ho dipinto anche un piccolo trittico. Si chiama Piccoli illuministi. In ogni quadro si vede il testone di un personaggio nel buio. Ogni personaggio ha un gran naso rosso da clown ed è raffigurato di profilo, intento a guardare una piccola candela che ha sulla spalla. La luce di una candela non illumina il mondo - come si propone di fare ogni grande luce teorica. Fa luce qui e ora, potremmo dire. Ma fa davvero luce. Lo si sperimenta. E lo si vede nelle cose illuminate. Che quella luce sia poca non è la cosa importante.
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