Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

L'ULTIMO MOTORINO Francesca Archibugi Cara "Linea d'ombra", dovrei parlare di come sono stati gli anni Ottanta? I miei? Mi fa un effetto tremendo parlare del passato, anche se prossimo. Provo dolore per tutto ciò che era e non è più. Saranno eruzioni sentimentali poco lucide: ma ogni tanto, nella nebbiosità, affiorano impensabili linee che altrimenti sarebbero ingoiate dalla nitidezza verista dell'immagine. Sono stati anche belli. Ho avuto vent'anni. Il mio unico vero grande amore. Il mio primo film, la mia prima figlia, la mia adorata casa in campagna. Come si può prescindere da tutto questo? C'era Craxi, ma mi fortificava il fatto che ci fosse. Aveva il suo mitopoietico faccione sempre bersaglio dei miei metaforici sputi. Adesso mi fa pena, mi fa piangere, lo inviterei a cena a casa mia, tutte le sere, per consolarlo dei tradimenti e delle defezioni dei suoi coristi, tutti presi nel gorgheggio di quanto aridi ed egoisti fossero quegli anni ... Entrai al Centro Sperimentale di Cinematografia. In attesa di essere chiamati nella stanza dell'esame, insieme agli altri ragazzi facevamo a gara a chi era più raccomandato: io ho un socialista e due repubblicani, io un comunista e un socialista, accidenti, io solo un democristiano, però mi sa che è andreottiano, uno forte, chi è il capo del consiglio, lui no? Bo?! Non ci faceva schifo. Ci sembrava una cosa pesante, ridicola e normale come il lungotevere all'ora di punta. Era il millenovecentottanta. L'anno di Manhattan. L'anno che morì Paolo. L'anno che con B. ci lasciavamo una volta a settimana. L'anno che mi bocciarono a scuola guida, e che mi volevo comprare la patente a Napoli. Ce n'erano, a centomila lire. Avevo le idee confuse su tutto, però abbastanza chiare su che cinema avrei voluto fare: mi piaceva il nome Realismo Poetico, come il grande critico Belinski chiamò al suo apparire il primo romanzo di Dostoevskij, per me il più bello, Povera gente; anzi, a dire il vero come definizione mi piace ancora adesso, sicuramente più di neorealismo. Dopo il Centro, feci una sola volta l'assistente alla regia, volontaria; e quando veniva il produttore sul set, che non mi voleva, mi fulminava con gli occhi se prendevo il cestino (famosa scatola alimentare cinematografica). Ali' ora di pausa me ne andavo a piangere in qualche antro oscuro, dicendo che dovevo telefonare. Un giorno fui sorpresa da un attore vestito da gelataio: non mi consolò, gli stavo antipatica. Naturalmente non è che mi mancassero i soldi (andavo a lavorare in tassì e per non farmi vedere dalla troupe mi facevo lasciare all'isolato prima), ma mi sentivo avulsa dal set, spaesata, e sola. Quel produttore adesso mi bacia la mano; tutte le volte, gli vorrei prendere fulmineamente il naso, e tirarglielo. Così cominciai a fare i miei cortometraggi, per la Rai, per Ipotesi Cinema di Olmi, piccoli racconti a soggetto che mi raddrizzavano lo scheletro e certificavano certe idee espressi ve che, per quanto maluccio uscite fuori, mi erano molto care. Gli anni Ottanta intanto andavano avanti, incandescenti; mi sono messa e ho lasciato due o tre qualcuni, sfiduciata nel precedente B.: mi sembrava troppo cattivo. Difatti ci sono andata a vivere insieme. Il millenovecentottantaquattro. L'anno di Turn Around di Pat Metheny. L'anno di Paris, Texas. L'anno che sono morta per un minuto e mezzo. Dall'Est che sobbolliva, dall'Unione Sovietica, dalla Germania, dalla Polonia, dalla Jugoslavia, cioè da quei posti che avevano avuto il comunismo quello vero e che se ne stavano liberando, con l'aiuto del Papa o di Reagan, o per insurrezione interna, in una emulsione di bene e male inestricabile e indecifrabile, stavano spuntando cineasti, narratori e poeti, e a tante voci hanno cominciato una cantata a controcanti che forse è stata da tanti decenni la più bella. Dolly Beli di Kusturiza è dell'ottantuno, mi pare (qualche data credo d'averla arrotondata); poi, a ruota, ogni due anni, ne ha fatto uno più bello dell'altro. Schiava d'amore, di Michalchov, aprì la cataratta anche ai suoi film precedenti, che cominciarono a circolare sui nostri schermi mentre l'autore, sedotto dalle dolcezze romane, prendeva il tè con Suso Cecchi e giocava a tennis con Nanni Moretti. La casa sul lungofiume, di Trifonov, fu una specie de Gli indifferenti di quel decennio. Tarkovskij è di poco precedente, ma come se provenisse dall'infanzia (di Ivan). Poi Kundera. La rabbia quando divenne il vessillo dei decerebrati con i capelli dritti di gelatina! Wajda continuava a fare dei grandi film, anche se ormai era detto "l'Uomo di Palle", nell'altra faccia romana tutt'altro che seducente, quella cinica. Christa Wolf. I Diari filmici di Marta Meszaros, che dolcezza da guardarsi, per una sensibilità femminile-ista. Christoph Hein. Wladimir Makanin. E alla fine del decennio, la mazzata finale di Kieslowski. Da dove era rispuntato fuori, questa sorta di Realismo Poetico, questo struggimento russo che mi seduce per intero, facendomi pensare d'aver sbagliato utero quando sono scesa giù dal firmamento? Proveniva proprio dal medesimo mondo, sempre uguale, mi dicevano i suoi poeti, un mondo sconosciuto eppure contiguo, vecchio come Giobbe eppure nuovissimo. Erano anni in cui mi sono sentita paradossalmente fortunata. Ho visto cose proprio come mi piacevano a me, che sembravano sparite dagli schermi e dalle pagine, il bello ufficiale era wendersiano o coppoliano, enormi talenti virati al lucente: ma chi tanto lucente non si sentiva, anche se principe o miliardario, senza quest'invasione di esseri senza lingerie, senza antiche gelaterie e senza sedici valvole si sarebbe sentito davvero solo. In America, dissanguando Carver, spuntavano giovani fighetti, e fighetti neri, la tromba scintillante di Winton Marsalis, la disperazione infiocchettata di Spike Lee. L'America non mi garbava granché. Ma forse avevo torto. Certo, non è che mettessi davvero in pratica tutto questo frullìo di immagini e personaggi; con Claudia Malatesta e Gloria Sbarigia scrivevamo con incosciente divertimento un cinema non proprio russo, diciamo di serie zw?x: saccopelisti e cose del genere; però usciva nelle sale, due giorni, e ci pagavano. li mio fidanzato continuava ad avere un carattere infernale, soltanto che adesso sosteneva che ce lo avessi io e forse, in un modo strisciante, femminile, era vero; abbandonava casa nostra se non una volta a settimana, una al mese. Scrivevo per 69

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