Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

'83/'93 • IL CINEMA CONTRO LO SQUALLORE MEDIO DALLAPARTEDEIVINTI PaoloMereghetti Dieci anni fa, la perversa genialità di Carlo Freccero trasformava una serie di fondi di magazzino di valore zero nel vero (e probabilmente unico) successo che Retequattro gestione Mondadori abbia mai potuto vantare: il programma s'intitolava Risatissùnae maciullavafilmcomici italiani con culi, pernacchie e tette varie (i volti e i nomi passavano in secondo piano perché in questo la televisione era e resta davvero inesorabilmente "democratica": mette a fuoco solo quello che interessa, senza reverenze per genealogie o padrinaggi) in un assemblaggio sgangherato che si impose nelle case italiane come un programma da non perdere. Non è un caso, allora, che questa ricognizione di dieci anni di cinema italiano si apra con una citazione televisiva, perché se c'è davvero un filo rosso che ha attraversato il nostro cinema in questo decennio è stata proprio l'influenza ideologica (molto più che produttiva) che i meccanismi televisivi hanno imposto al mondo del cinema. Così come non è casuale che proprio nello stesso anno Carlo ed Enrico Vanzina facessero uscire Sapore di mare, primo di una serie infinita di telefilm giovanilistico-consolatori che solo l'insipienza dei distributori italiani scambiò per film e programmò nelle sale. Con la conseguenza di educare il pubblico a un tipo di cinema che non era più riflessione o immaginazione o sogno o rimpianto, ma solo barzelletta o pensierino o quadretto consolante (mai un attimo di dubbio che quella beota idiozia comportasse anche qualche mancanza di responsabilità, qualche chiamata di correo, che non fosse nostalgia ma solo maniera. E della più scadente, per giunta). Non si tratta di sfoderare il senno di poi, ma di ricordare che lo squallore della società italiana e del suo specchio televisivo non poteva non riverberare anche nel cinema, sceso ai suoi minimi produttivi storici non perché le televisioni programmavano troppi film, ma perché i produttori cercavano di imitare la televisione anche al cinema (le battute del comico di turno; gli special per la soubrette à la page, uomo o donna che fosse; la smisurata fiducia nelle capacità istrioniche dell'entertainer). Con l'eccezione di Moretti (che proprio nell'Ottantatre - strana coincidenza delle date - gira il suo film più felicemente e ferocemente contraddittorio, Bianca) nessuno sembra preoccupato di farsi carico, cinematograficamente parlando, della perdita di solidarietà che si impone nella società e conseguentemente di sforzarsi di analizzare il trionfo di questo nuovo individualismo, diventato un enigma da risolvere e non più il prodotto più o meno scontato di un qualche accidente narrativo. Ali' estero, questi segnali di modernità venivano letti (con esiti differenti, ma non è questo quello che interessa qui) da registi come Woody Allen o Martin Scorsese o anche Eric Rohmer. Da noi nessuno sembrava accorgersene (critici in testa, of course). È, questo, un vuoto, una mancanza, un'insufficienza che ha condizionato pesantemente il cinema italiano in questi ultimi dieci anni e che ha favorito tentativi di ripresa più sul piano progettual-produttivo che su quello politico-creativo. Nel senso che i film interessanti e anche belli che sono usciti in questi ultimi 66 anni sono il frutto di uno sforzo individuale, del coraggio del singolo più che l'espressione di un progetto di cinema diffuso e ramificato. Mi dispiace per i coniatori di neologismi (o addirittura di neo-neologismi), ma il cosiddetto ritorno al realismo che qualcuno ha voluto vedere in certi film recenti non corrisponde a un'idea progettuale di cinema (come era stato in passato il neorealismo, ma anche la commedia all'italiana), ma piuttosto è il tentativo di ricollegarsi ali' attenzione per la cronaca imposta da certa televisione (ancora lei!) e che alcuni registi hanno saputo sfruttare in maniere non ovvie o scolastiche. Se qualche spinta rinnovatrice si è imposta nel panorama cinematografico, questa è venuta soprattutto dagli sceneggiatori, i primi a rivendicare il bisogno di recuperare un cinema narrativo e non solo esornativo, a ribadire il ruolo centrale di una professionalità che nuovi e vecchi comici tendevano ormai a dimenticare. Ma è comunque una rivendicazione sostanzialmente professionale, interna a un ciclo produttivo che tendeva a emarginarli o a ridurli a gagmen: sacrosanta, s'intende, ma ancora ferma ai prodromi di una vera spinta innovatrice capace di trasformarsi in progetto creativo. Un problema, quello della professionalità, che troppi soloni hanno talmente sottolineato da farlo diventare un incubo. Con un risultato curioso: che a guardare i film prodotti in Italia negli ultimi anni, ciò di cui si sente maggiormente la mancanza non è l'insopportabile qualità media, ma piuttosto la fiducia nel cinema, nelle sue capacità espressive, nella sua forza linguistica. Strano paradosso: la generazione che più di tutti dovrebbe essere arrivata al cinema attraverso l'amore e la conoscenza dei grandi registi degli anni Sessanta (quel Truffaut troppe volte citato, quel Godard sempre in excelsis, quel Coppola ogni giorno invidiato), proprio quella generazione di trenta/quarantenni sembra aver dimenticato e rimosso i loro insegnamenti e le loro idee. Certo, il panorama non è tutto nero. Qualche nome permette speranze e scommesse sul futuro-Soldini, Mazzacurati, Archibugi, Pozzessere, Capuano, Martone, Segre, Ciprì e Maresco, Corsicato, Zaccaro (oltre ai due frate I li maggiori Amelio e Moretti) - ma sono speranze legate alle loro qualità meno osannate, alla capacità di recuperare un legame con la miglior tradizione del cinema italiano più che ai loro exploit autoriali, al coraggio più che alla bravura. Nel senso che il racconto delle tante sensibilità ferite dalla sistematica sconfitta dei sentimenti, sembra aver lasciato finalmente il campo alla voglia di superare il solipsismo narcisistico, di uscire fuori dai muri troppo stretti di un minimalismo narrativo (e produttivo) che si era subito rivelato soffocante e asfittico. Se lo spazio chiuso della casa era stato negli anni Ottanta la metafora di un grado zero da cui ricominciare a fare cinema, "l'immagine della condizione minimale di una rappresentazione realistica delle biografie borghesi" (come hanno scritto Mario Sesti e Piera Detassis), rifugio da un mondo ostile e volgare con cui non si era più capaci di fare i conti, con gli anni Novanta è proprio il recupero della miglior tradizione cinematografica ita-

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