Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

LA LETTERATURA PIEDI Sandro Veronesi Ho già avuto modo di dire che considero la cosiddetta scrittura di "non-fiction" come un luogo di vacanza del romanziere, un suo "viaggiare ali' estero", per utilizzare una felice espressione utilizzata da Ian McEwan. Questo significa che intendo il termine "non-fiction" nella sua originaria e più restrittiva definizione di annessione territoriale a esclusivo appannaggio degli abituali scrittori di "fiction", e cioè dei narratori. Non altro. Non avrebbe senso, altrimenti, ricorrere a una definizione in negativo: basterebbe dire reportages, cronache, biografie, diari di viaggio, o "faits divers", come suggeriva Leonardo Sciascia. Perciò combatto la recente degenerazione del significato attribuito a "non-fiction", che tende a comprendere qualunque opera, scritta da chiunque, purché su argomento non inventato. Non è non-fiction la fluviale produzione dei giornalisti, per esempio, che raccolgono in volume il frutto della loro esperienza di osservatori privilegiati della realtà: sono opere importanti, le loro, e forse in periodi come l'attuale momento del nostro paese sono anche fondamentali, ma non ha senso parlare di non-fiction. Perché questo termine così esatto - al punto di essere intraducibile - è nato per indicare esattamente il contrario, e cioè il fenomeno dello scrittore che si fa testimone, non quello del testimone che si fa scrittore. È importante, questo, perché così considerata, la scrittura di non-fiction continua ad avere pochissimi interpreti, negli ultimi dieci anni come in passato, in Italia come altrove. È certamente una scrittura scomoda, in senso proprio fisico, faticosa, perché comporta un tipo di lavoro cui spesso l'intellettuale tende a sottrarsi (chissà perché la cultura del "sopralluogo" rimane così ostica allo scrittore, chissà perché viene abbandonata nelle mani del burocrate); e specificamente in Italia essa è stata spesso fagocitata dalla forte tradizione della "prosa d'arte", entro la quale spesso veniva diluito anche il poco lavoro di non-fiction con cui molti grandi scrittori integravano la loro opera di metabolizzazione della realtà: fatto sta che le grandi opere di non-fiction sono sempre state eccezioni, anche in tradizioni più generose della nostra con la narrativa, come quella anglo-sassone. Personalmente sono convinto della bontà della strada tracciata da Truman Capote, che lui ha chiamato "giornalismo letterario", e constato il perdurare della sua sostanziale "verginità" come territorio di scrittura, perché ben pochi scrittori vi si dedicano e tra coloro che lo fanno una buona parte rimane deliberatamente al di sotto delle proprie possibilità, come si trattasse di un impegno minore (leggere i reportages pubblicati quest'estate su "Sette" da Alessandro Baricco e conciliarli con un romanzo prezioso come Oceano mare è dura, tanto per fare un esempio). Per non parlare dei pastrocchi combinati da autori bravi ma imperdonabilmente immodesti, come Aldo Busi, incapaci di sospendere anche solo per un istante il proprio egocentrico pregiudizio del mondo e per questo letteralmente disastrosi nelle loro prove giornalistiche: loro, e non delle 62 mezze tacche, sarà la responsabilità dei danni provocati al gusto dei lettori, già debole di per sé in questa materia. Con queste premesse mi permetto di affermare che il libro più importante dell'ultimo decennio in fatto di non-fiction è La prima guerra delfoot-ball di Ryszard Kapuscinski, e che geniale è il contesto nel quale l'autore si è auto-collocato con quel suo libro, scavalcando anche la non-fiction per inventarsi una splendida "letteratura a piedi". E allora, se è di letteratura a piedi che si parla, Che cifaccio qui? e Le vie dei Canti di Bruce Chatwin, Artisti, pazzi e criminali di Osvaldo Soriano e Mediterraneo di Predrag Matveievic sono altre opere fondamentali degli ultimi anni. Ed è incoraggiante, per me, constatare che anche in Italia alcuni narratori si sono recentemente rimessi a camminare per scrivere un libro: penso a Sandro Onofri (Vite di riserva), a Fulvio Abbate (Capo D'Orlando - Unsogno fatto in Sicilia), a Gianfranco Bettin (L'erede). Si farà un po' di strada insieme. UN'ASSENZA DI SUONO Sandra Petrignani È un decennio particolarmente vituperato quello appena trascorso, e ancora non sappiamo se gli ultimi eventi evolveranno in un miglioramento politico e sociale o se sono soltanto l'anticamera di altri abissi. Tutto era cominciato allegramente, in grande disimpegno e pieno confort. Ognuno a farsi i fatti suoi, cercando soprattutto di sdrammatizzare e divertirsi scoprendo che, finita la rivolta, finiti gli anni di piombo, l'unica arma utilizzabile era l'ironia. E d'ironia siamo vissuti e sopravvissuti fino all'abuso. Per riempire quel vuoto tremendo, quel senso di aver sbagliato tutto o qualcosa, qualcosa comunque di decisivo. Gli scenari sono cambiati così rapidamente, ed è così difficile per chi ha oggi quarant'anni separarli dalla propria età. Ma certo avere quindici anni quando c'erano i Beatles, Bob Dylan e la contestazione, averne venticinque col terrorismo, trenta con il riflusso, trentacinque con il crollo dei muri e delle ideologie ... tutto questo ha un senso particolare, il senso che dà a una generazione i suoi contorni. E guardarsi indietro vuol dire inevitabilmente rivivere un sentimento, quello preciso con cui si stava dentro gli eventi, dentro la musica, dentro al proprio gruppo o la propria passione. All'ultimo decennio, però, corrisponde una sorta di buio, un'assenza di suono, una confusione. Qual è la continuità? Ognuno continua a vivere dentro la Storia la sua propria storia; è questa la continuità? Ma ci sarà davvero continuità fra quelli che eravamo a quindici anni e quello che siamo oggi? Sembra quasi che si tratti di persone diverse e di mondi diversi. Probabilmente l'errore è questo sguardo sempre esterno gettato su una realtà che non esiste, di cui sappiamo pochissi!llo. Più vado avanti e più mi convinco: se c'è una verità, una realtà, questa è letteraria, artistica, spirituale. Ed è una conclusione opposta a quello che volevano insegnarci gli anni Ottanta.

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