bisognerà pur tenere conto di tutto ciò che nel nostro universo culturale (e nella nostra stessa percezione) nega e stravolge quegli illustri modelli. Certo, tutte le esperienze sono di nuovo possibili e raccontabili (non è più tempo di interdizioni), dall'estasi amorosa alla fusione panica con la natura e fino al più oltranzista rifiuto dell'Esistente. Ma queste esperienze sono contigue, nella vita quotidiana di quasi tutti noi, alla chiacchiera pervasiva dei media, ad una impossibilità di vero silenzio interiore, ad una fruizione intellettuale assai frammentata e distratta. L'estasi convive ambiguamente con il "Costanzo show" dedicato all'estasi e il pensiero oppositivo viene tempestivamente schedato nella grande inchiesta sull"'Espresso". Credo sia legittimo pretendere oggi da un ro-· manziere di rappresentare soprattutto questa "normale" e indecifrabile ambiguità (e chi altri potrebbe farlo?), di non cancellare nulla di sé e dei molteplici piani della propria esistenza. Né gli scrittori attuali sono condannati, dopo Calvino, al rifacimento parodistico o ad una inesausta catalogazione o al puro gioco combinatorio. Esistono molte altre possibilità, tutte in qualche modo riconducibili al genere romanzo, alla sua infinita porosità e alla sua "apertura". Se Baricco opta per l'ironia, la citazione e il pastiche, Clara Sereni sembra intrattenere un rapporto quasi mimetico e appena manieristico con il romanzo ottocentesco (e nella sua saga familiare può usare, entro una prosa nervosa, inquieta, anche termini come "incarnato"). Eppure in queste diverse opzioni espressive si registra comunque la presenza di un segno o timbro distinguibile, pur in tempi di eclettismi e ibridazioni, l'evidenza di uno stile personale (ecco, forse questo è l'unico aspetto, magari residuale, del "moderno" che appare irrinunciabile). Sul secondo punto ( ovvero "ideologia italiana" e messinscene) Per "ideologia italiana" intendo soprattutto una mentalità, un atteggiamento "moderato" verso il conflitto (mai confrontarsi con esso, e rischiare di esserne sopraffatti), una tendenza ad evitare passaggi troppo dolorosi, traumatici, attraverso una vivace "teatralità" o affidandosi morbidamente al "canto". Anche qui: un antico e radicato carattere viene a coincidere con un elemento della cultura del nostro teri1po, con una tendenza del mercato mondiale: l'attitudine a spettacolarizzare iI negativo, iI conflitto, per imbrigliarlo, per renderlo cantabile, soave o esilarante (e questo ben lo sapeva Tondelli, che, in Rimini, trasformò in spettacolo a pagamento perfino I' apoca Iisse ). Ora, la spettacolarità è diventata un elemento imprescindibile del nostro paesaggio culturale, dell'immaginario collettivo, e perfino della vita e della lingua quotidiana: quando si incontra qualcuno, al posto del tradizionale "Come stai?" ci si sente sempre più spesso dire: "Allora?" (insomma: fame di eventi, febbrile aspettativa di novità). Già Leopardi parlava della "vivacità del carattere italiano", che porta a "preferire i piaceri degli spettacoli ... a quelli più particolarmente propri dello spirito", e così i principali momenti di socializzazione sono "il passeggio, gli spettacoli, le Chiese". Forse abbiamo perso per strada molta di quella "vivacità", però se essere italiani significa restare sospesi tra modernità e tradizione "senza alcuna mediazione consapevole" (Bollati), chissà che la recente narrativa non offra alcune di queste difficili mediazioni. Già nella fase aurorale della giovane narrativa avevamo capito con De Carlo che si può essere svagati nomadi dello spirito ma sempre ben al riparo da pericolosi turbamenti; o anche con Del Giudice che la realtà si è forse dissolta entro schermi di luce, ma l'importante è "schermirsi" dai più normali sentimenti; mentre Aldo Busi, dopo la sua opera d'esordio (una vitalissima, incontenibile autobiografia) rivelava un talento soprattutto retorico e smisuratamente narcisistico; e così Lodoli, al di là degli sfondi 60 metafisici e millenari, esprime un'inclinazione ludica (vagamente repressa) di clownerie grottesca e surreale. E perfino una scrittrice "crudele" come la Tamaro rappresenta l'orrore anche con sinistra e infantile allegria, con estro fiabesco e preordinata ritualità. Insomma, enfasi estremista e piglio declamatorio, apocalissi senza rischio e viaggi confortevoli al termine della notte: visti da lontano e in una foto di gruppo, i nostri autori ci appaiono molto più familiarmente italiani di quanto loro stessi credano. Il nostro passato letterario, si sa, non è il romanzo (perfino Alfieri, nella Vita, scriveva di conoscere solo romanzi stranieri, ("perché degli italiani leggibili non ve ne è"); tutt'al più è il melodramma (e tralascio qui l'altro ricchissimo filone, quello non-fiction diaristico-autobiografico, del frammento lirico, della pagina ben curata e della annotazione di costume) ... Ma in questo caso si può anche fare di necessità virtù. Credo che la vibrante e ingrata polemica di Sandro Veronesi contro l'opera lirica nasca da un inconfessato senso di colpa. Mentre la Capriolo, incontrando fatalmente Puccini, ha scritto forse il suo migliore romanzo ... Dunque: elusione del tragico e di ogni "profondità", primato sospiroso del l'emotività a coprire certa anemia di fondo, esorcizzazione del Male, aggiramento di scelte morali ineluttabili, accortezza nel calcolare costi e conseguenze: il che si riflette puntualmente su stile e schemi narrativi (nella grande arte del Novecento troviamo molti esempi in tal senso: ma in Celi ne o in Svevo il pirotecnico "teatro" del negativo, il gioco e l'ironia di fronte al nulla, lasciano sempre un residuo doloroso non interamente combustibile). Ho l'impressione che quei caratteri così tipicamente "italiani" siano indossati controvoglia dai nostri scrittori, perlopiù dissimulati, come vergognandosene un po'. E naturalmente il gusto per la messinscena e per il travestimento non dovrebbe escludere una onestà di fondo, che non significa un particolare atteggiamento virtuoso, ma direi una capacità rappresentativa (e autorappresentativa). Gli scrittori italiani, se intendono assolvere a quella funzione di resistenza della letteratura (da più parti auspicata), dovrebbero semplicemente essere se stessi, senza mostrarsi più radicali o più sensibili o più eversivi o più abissali o più pensosi di quello che sono, senza fingersi mitteleuropei o cosmopoliti, senza sublimarsi in una dimensione mitica. Vorrei fare un esempio tratto da un autore straniero pure molto "radicale", Ian McEwan, e dal suo romanzo del 1987 Bambini nel tempo, quando il protagonista si trova improvvisamente in mezzo ad un gruppo di minacciosi straccioni che lo guardano male, "gli venne istintivo cercare con lo sguardo un poliziotto". Ecco, una osservazione del genere, di disincantata descrizione dei propri reali sentimenti di ceto, sarebbe quasi impensabile in un romanzo italiano. D'altra parte, ci ricordava tempo fa un docente inglese di letteratura italiana, Miche! Caesar, lo scrittore inglese "risponde alle esigenze di un pubblico che da sempre, anche al di fuori della narrati va, si arrovella sul suo status". Insomma credo che la furia mimetica nell'indossare identità improbabili, la riduzione di tutto a commedia, l'eclettisimo, l'affabulazione comico-grottesca, l'elusione del tragico - insomma tutto ciò che forma una nostra riconoscibile tradizione - siano elementi quasi mai (per cattiva coscienza) giocati fino in fondo, e soprattutto finalizzati sapientemente ad una strumentale autogiustificazione, ad una bovaristica evasione da sé. L'inclinazione (di per sé "neutra") al melodramma, al gioco e al patetico, incontrandosi con le nuove classi inedie, ha formato una miscela micidiale: si è tradotta in una rappresentazione di sé perlopiù falsa, sempre molto idealizzante e abbellente (come lo specchio della Regina Cattiva); il che equivale all'esatto contrario di quella ostinata vocazione conosciti va, che è poi l'unica vera morale del romanzo.
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