SGUARDI VISIONARI L'ALONEDELFANTASTICOIN CERTIROMANZI Marisa Bulgheroni In epoche qual è la nostra, scandite da profondi e continui mutamenti che accompagnano il vivere quotidiano simili alle vibrazioni di un sordo terremoto, storia e linguaggio sembrano urtarsi e divergere come continenti alla deriva. Con moto rapido e irreparabile la storia devasta le antiche convenzioni comunicative trascinandole nei suoi vortici; e la lingua si trasforma: aderendo scopertamente alle esigenze accelerate del nuovo, occultamente preservando macerie, detriti, fossili verbali per innescarvi l'esplosivo di più radicali novità. Nello spettacolo quotidiano allestito dai mass-media la storia, confusa e illeggibile, si compone di un' illusione di caotica continuità; mentre la discontinuità, bandita, è l'oggetto delle nuove e nuovissime tecniche dell'immagine - dagli esperimenti multimediali alla realtà virtuale. I narratori, armati della sola parola, divisi tra la scelta dell'evento da raccontare e le alternative della resa verbale, sono spinti a un estremismo espressivo che salvi la lingua non tanto dalla contaminazione con gli altri media - suggestivi di inedite possibilità- quanto dall'usura e dall'impotenza: che la preservi come strumento unico di indagine e di invenzione di altri mondi. Si delinea, non formulata, tra il 1983 e il 1993, una tendenza a sperimentare nella clandestinità, una sorta di resistenza che, sotterranea alle mode e immune dalle teorie, produce scritture visionarie, voci dissonanti, ardue lingue franche dell'immaginazione. Nell'insensato coro unanime della medietà, il dissenso linguistico può acquisire la forza di un'opposizione civile e politica. "Fin dal primo libro" dichiara Consolo "ho cominciato a non scrivere in italiano [...] Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti" (1988, intervista curata da Marino Sinibaldi). Di fronte al disorientamento indotto dalle nuove teorie astrofisiche Italo Calvino adotta un telescopio accomodato ali' infinitamente vicino: l'occhio umano spalancato sul visibile, assorto nel!' accertarne e quasi nel sostenerne, gli indizi di esistenza. Il protagonista del suo Palomar ( 1983) rinuncia al "modello dei modelli" - ossia all'utopia matematica di un'infinita combinazione - in favore di uno sguardo spasmodico capace di catturare nelle sue ragnatele lo scintillio di una parola mai pronunciata, la lettera di un alfabeto sconosciuto. Nell'imminenza della fine di tutte le storie, Paolo Volponi ne stila, in Le mosche del capitale (1989), l'atto liquidatorio: "Niente. Non c'è proprio niente da raccontare. Non c'è più Madame Bovary. Ci sono le categorie sessuali, i prodotti letterari, cinematografici, dietetici, comportamentali [...] Il racconto è finito. La narrativa è[ ...] il bancone del supermercato". Eppure il suo romanzo è teso fin dalla prima pagina a nan-are in una scrittura da insonne visionario il prodotto dei prodotti, discontinuo e non circoscrivibile: la metropoli industriale. Mi domando oggi se il clangore soffocato di questa battaglia, in cui si giocavano e si giocano le sorti della lingua, mi abbia diretta, a esclusione di altro, verso quelle scritture, voci, lessici che mi sembravano rispecchiare lo sconvolgimento di fine secolo non nella materia del narrare, ma, per forti analogie formali, nella 58 frantumazione, nella polifonia, nello straniamento: verso libri accomunati dalla volontà di comprimere la storia in una parola stratificata, dal sogno di una lingua che, senza rinunciare alla narrazione dell'evento, narri di sé e della propria forza oppositiva. Contro il panorama di fondo degli ultimi dieci anni questi libri si profilano oggi come città fantastiche costruite in territori notturni, impervie alle aggressioni: la loro garanzia di durata è nel nostro bisogno di riattraversarle per accertarci che esistono. L'annuncio di una sotterranea vena visionaria, destinata ad affiorare alla luce tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta, rintocca potente in Aracoeli di Elsa Morante, apparso nell'ottobre 1982. A un paese sazio e insieme rapace come l'Italia del tempo, questa nan-azione che intesseva intorno al tema dell'esilio una rete di analogie e di metafore - della cacciata, dell'amputazione, della separazione, del disconoscimento - parve estranea, quasi straniera. Sfuggì ai lettori, già intorpiditi dal consumo dell'ultimo bestseller, che l'effetto di straniamento era sapientemente orchestrato dalla Morante in uno spartito di negazioni e rifiuti. Il narratore, in viaggio alla ricerca delle radici materne, scopre di essere esule per nascita perché nel suo e nostro mondo nessun lembo del passato e del presente è abitabile da chi vive nella monomaniaca veglia della memoria; e lo spazio stesso si rende irriconoscibile sotto il passo di chi cerca e di chi fugge. Lo straniamento temporale e spaziale assume anche in altri scrittori le forme del viaggio. Si cercano altri tempi, altri secoli, non come scenari o cornici di romanzo storico, ma come sipari da sollevare su sogni ricorrenti, su caratteri non ancora estinti, su passioni affini o contrarie alle nostre: su quanto, in noi, résta inaccessibile se non viene attivato dalla parola che lo rinomina. Vi sono viaggi che trascinano nella vertigine visiva. Così Retablo (1987) di Consolo, dove una Sicilia settecentesca di incanti e violenze si dischiude al colto pittore venuto dal nord in una sequenza di immagini che sembrano rispondere a un bisogno della sua mente, al modo in cui nel "retablo delle meraviglie" esposto in una fiera di paese ognuno scorge quello che vuole. Ma l'illusione, in un caso e nell'altro, esige un'ardua decifrazione di "arcaiche scritture", di "civiltà estinte", alla quale il lettore è chiamato, a sua volta, a partecipare. Altri viaggi sono fiabeschi. Nel Cardillo addolorato ( 1993) di Anna Maria Ortese tre giovani signori, sul finire del Settecento, discendono dai Paesi Bassi verso la luminosa Napoli: dove la ricerca del sole e dell'amore si conclude nell'incontro con la notte e con gli infiniti arcani del dubbio e del dolore. Così che nel favoloso canto del cardillo, annunciatore e complice di ogni mistero, risuona la nera nota chimerica sottesa a ogni epoca dei lumi, passata o presente. E vi sono peregrinazioni tenebrose che portano oltre i confini del tempo. Nel postumo La palude definitiva (I 991) di Giorgio Manganelli il nan-atore si trova a viaggiare in uno spazio alieno che elegge a "patria"; ma, in lotta con l'oblio come il viaggiatore di Aracoeli, affronta testardamente i "sottili problemi" di una "geografia teologica" per tracciare, di quel luogo assoluto, una
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