Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

incompleta proporrò tre impressioni generali, da assumere - va da sé - con largo beneficio d'inventario. La prima è che le esperienze più innovative si ~ti~no svolgend~ n~l segn? dell'.invenzione fantastica e umonstlca, della pro1ez10ne s1mbohca, della accentuazione e manipolazione espressionistica dei linguaggi, piuttosto che del realismo rappresentativo. La seconda è che la "realtà" (intesa come concreta, diretta esperienza) sia presente soprattutto in quanto messa in scena di idioletti, cioè attraverso la resa di "parlati" individuali fortemente idiosincrasici, con una buona componente teatrale, laddove scarseggiano le ricerche nella direzione di una medietà espressiva dinamica, non precostituita-e qui s'intenda: una medi età non piatta (nel senso del "grigio" toscano o moraviano), né conformata su modelli tradizionali di lingua letteraria (fermo restando che anche in IL CONTESTO, DEPRECABILE Alessandro Baricco Io, nell'83, non mi ricordo neanche più dov'ero. Probabilmente nella palude del lavoro intellettuale post-universitario: un guano niente male. Anticamere infinite, soldi in nero (pochi), lavori scomparsi nel nulla o comparsi con altre firme, cose così. Da dimenticare. Nel bel mondo della narrativa italiana ci sono finito a fine decennio, nel '91, quando ho pubblicato Castelli di rabbia. Non ne sapevo niente, di come funzionava. E non conoscevo praticamente nessuno. Son finito al Campiello, per dire, senza nemmeno sapere bene cosa fosse. È stato come andare a Disneyland. Mi sembravano tutti marziani. Da allora non è passato molto tempo. E molto poco è successo. Per cui una mia testimonianza su quel decennio, nella narrativa italiana, è abbastanza inutile. Posso giusto annotare due cose che ho scoperto, e che non mi aspettavo, e che in qualche modo sono tutto ciò che ho imparato. La prima è che raccontare storie è un mestiere nobile, con una sua precisa funzione civile, una sua valenza morale, un prezioso ruolo di testimonianza, di vigilanza, di custodia. Quando ho iniziato pensavo che fosse più un rito narcisistico ed esibizionista. E invece no. È meglio di quanto uno immagini. È un mestiere di cui non ci si deve vergognare. Nel film di Wenders Fino alla fine del mondo, c'è un aborigeno che, seduto nel cassone di un camion che viaggia in mezzo al deserto australiano, si mette a cantare qualcosa di incomprensibile. "Cosa canta?" chiede la lei del film. E William Hurt le spiega (più o meno): questa terra è la loro Bibbia, non hanno testi scritti, hanno solo la terra: ognuno di loro canta un pezzo di questa terra, perché è un modo di evitare che scompaia, che qualcuno la rubi, che muoia. Io mi sento come l'aborigeno. Racconto un pezzo di ten-a così non scompare. Solo scrivendo, e pubblicando, mi sono accorto che esiste gente per cui questo è utile, alle volte necessario, comunque importante. Ci tengono, a quella terra. E hanno bisogno che qualcuno vigili su di essa. Come io ho bisogno del medico, di qualcuno che faccia gli atlanti geografici, o che accenda a una certa ora, tutti i giorni, le luci della città. È una specie di strano servizio civico. Nobile perché faticoso, anche 56 quest'ultimo caso, teste Salvatore Mannuzzu, si possono cogliere pregevoli frutti fuori stagione). La terza è che il genio narrativo nazionale continui a non prediligere la costruzione di intrecci (anche se probabilmente bisognerebbe seguire più da vicino il laboratorio di un editore dichiaratamente "di genere" come Interno Giallo), mentre dimostra una certa varietà e inventività nel variare e animare forme brevi, discontinue o sintetiche. L'unica positiva certezza è che il periodo 1983-'93 non ritaglia alcuna partizione credibile nella nostra storia letteraria: piuttosto, si potrà dire che include al proprio interno, in un arco di tempo più o meno lungo, una svolta, un mutamento di clima e di prospettive. E agli sviluppi futuri, quali che siano, siamo certi che "Linea d'ombra" risulterà aver dato un contributo che non sarà tra i più piccoli, né tra i meno importanti. molto faticoso, a modo suo. E morale, perché la ragione della sua necessità non è immediatamente evidente, ma sotterranea, e risulta visibile solo a uno sguardo che inquadri il mondo con una ostinata pretesa di eticità. La seconda cosa che ho imparato è che il contesto in cui lo scrittore si trova a lavorare, oggi, in Italia, è un contesto poco nobile, del tutto amorale e privo di una reale coscienza civica. Anche in questo caso, quel che mi aspettavo prima di iniziare a pubblicare era un'altra cosa. Mi aspettavo un mondo in qualche modo "migliore". E invece no. Tra chi scrive non c'è solidarietà, parentela, complicità. C'è molta rivalità, molta invidia, molta meschinità. I maestri scarseggiano, e abbondano certe parodie di saggi che dispensano le loro pippe come fossero preziose schegge di Sapere. Non c'è dibattito vero: c'è la rissa, il litigio, le faide fra famiglie nemiche, il penoso raccattar denaro vendendo articoli contro qualcosa, qualcuno, pur che sia. Il giornalismo culturale, cresciuto sul modello di quello sportivo, regola il traffico, gongolando a ogni battibecco, sciorinando classifiche, e bruciando sull'altare cieli'attualità piccoli tesori che avrebbero bisogno, per maturare, del tempo lento della riflessione. Gli editori coniugano passione per i libri e cinismo commerciale in un modo che devo ancora capire, e che comunque sortisce risultati non esattamente elettrizzanti. Alla stessa infelice acrobazia si dedicano i librai. Il bello è che poi, molte di queste persone, prese una alla volta, nell'intimo della loro cameretta, sono anche persone stimabili, ben intenzionate, spesso sincere nella loro passione per i libri. Ma appena salgono sul palco del gran baraccone, sparisce tutto. Tutto diventa miseria. È un meccanismo fetido, che non ho mancato di sperimentare anche su me stesso, e che quindi dovrei ormai aver capito. E invece continua a sorprendermi, e a lasciarmi di stucco. Se dunque devo dire una cosa una sull'essere scrittori alla fine di questo decennio, mi viene da dire questa: il problema vero è riuscire a esercitare un mestiere bellissimo e nobile in un contesto divenuto deprimente e deprecabile. Riuscire a non smarrire l'originaria ricchezza di quel gesto - scrivere - nell'inautenticità del mondo che lo raccoglie e lo gestisce. Si dirà che è sempre stato così, e magari è vero. Però sospetto che l'industria culturale con cui abbiamo a che fare noi sia diventata molto più potente e astuta di quella che già demonizzava Adorno. E che il culto per l'informazione coltivato dall'Occidente si sia ormai rivoltato in un fanatismo senza senso. E che l'ansia di spettacolo si stia divarando il diletto della riflessione. E che la facilità con cui oggi uno scrivente può diventare un potente attiri lo scrittore nell'angolo di una cronica debolezza. Il che non è propriamente una cosa gradevole.

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