Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

La fortuna del racconto è d'altronde diffusa, non conosce confini di sesso o di età, e alimenta le interpretazioni più varie del narrare breve. Si vedano ad esempio gli·opposti casi di Gianni Celati e Antonio Tabucchi: per il primo, la scelta del racconto ha rappresentato innanzi tutto una maniera di riaccostarsi alle primigenie fonti orali del narrare, mentre per il secondo è il portato di un'ispirazione letteratissima, che si traduce in una raffinata levigatura di vicende circoscritte, di immagini emblematiche, di dissolvenze tra ricordo e sogno. O ancora, per citare due interessanti esordi del '92, nella Bellezza dell'asino di Pia Pera la misura breve è funzionale all'ipotiposi di personaggi diversi e ben individuati, mentre Camerati di Antonio Franchini percorre momenti della vita di un protagonista sostanzialmente unitario, su sfondi inclini alla coralità. E si potrebbe facilmente continuare. Ma fin qui il panorama della narrativa italiana 1983-1993 risulta ancora sfocato. Occorre quindi fissare, sia pure in forma schematica, alcuni essenziali punti di riferimento: senza peraltro nascondere che la cultura letteraria attuale è caratterizzata da un'effettiva disgregazione di esperienze, favorita (tra l'altro) da una virtuale stagnazione del dibattito critico, che induce i narratori a proseguire ciascuno per la propria strada. In discussione ovviamente non è il principio della spontaneità creativa, bensì la necessità di situare e definire il proprio impegno artistico rispetto a un contesto culturale determinato, delineandone le tendenze più vitali, valorizzandone i tracciati più dinamici. Ma - ripeto - la responsabilità è equamente condivisa da critici e recensori, di rado capaci di presentare l'attività letteraria, anziché come un inventario di prodotti più o meno appetibili, come uno spazio progettuale aperto, in cui convivono e confliggono diverse idee di letteratura. Ricordiamo innanzi tutto l'attività dei narratori già pienamente affermati all'inizio degli anni Ottanta. La decana della nostra narrativa è Laila Romano; benché abbia continuato a scrivere e a pubblicare (Nei mari estremi, '87; Le lune di Hvar, '91), il dato principale a suo riguardo mi sembra la recente assunzione nel nostrano Gotha dei "Meridiani" Mondadori. Anna Maria Ortese è invece riuscita, prossima all'ottantina a dare il meglio di sé con il sorprendente, fastoso, enigmatico Cardillo addolorato (ma non bisogna dimenticare la bella raccolta di scritti di viaggio La lente scura, del '91). E anche Domenico Rea, poco attivo negli ultimi lustri, ha fornito una prova convincente con il recente Ninfa plebea ('92). Paolo Volponi (che non ha cessato di alternare prosa e versi) ha proseguito la sua severa, intensa, accigliata ricognizione del passaggio dall'Italia agricola e provinciale alla realtà industriale e metropolitana dei nostri tempi. Anche nei romanzi Le mosche del capitale ('89) e La strada per Roma ('91) ha tuttavia raggiunto i risultati migliori quando l'assunto realistico ha lasciato spazio ad un vigoroso impulso visionario. Dopo aver esordito nel '63 con La ferita del!' aprile, Vincenzo Consolo si è imposto all'attenzione con Il sorriso dell'ignoto marinaio ('76), ma un adeguato riconoscimento dei suoi meriti è maturato lentamente, per gradi. Le sue opere di questi anni - Lunaria ('85), Retablo ('87), Le pietre di Pantalica ('88), Nottetempo, casa per casa ('92) - compongono una serie davvero notevole per valore e coerenza; nel confuso panorama della narrativa di fine secolo, non c'è dubbio che la strada che egli s'è tracciato, fra Sciascia e Gadda, nel segno della contaminazione tra inchiesta storica e sperimentazione linguistica, rappresenti una delle esperienze di più sicuro significato. Fedele a un ideale affatto diverso di scrittura sobria, affabile e comunicativa, seppur dotata di un'eleganza a volte preziosa, anche Giuseppe Pontiggia ha proseguito la sua attività sviluppando modi e temi già delineati negli anni precedenti. Senza misconoscere i pregi del Raggio d'ombra ('83) e della Grande sera ('89), il suo risultato più lusinghiero è costituito senz'altro dalle recenti Vite di uomini non illustri, originale revisione dei moduli della biografia in chiave ironicamente anti-plutarchiana. Fabrizia Ramondino (Althénopis, '81; Storie di patio, '83; Un giorno e mezza, '88) si rifà invece all'eredità di Elsa Morante, alleviandola delle lacerazioni più drammatiche, moderandone la temperatura stilistica e ideologica; e anche in questo caso parrebbe confermata la tesi che vuole i narratori italiani più inclini alla misura del racconto, o della prosa meditativa e memoriale, o della narrazione lunga ma frammentata e discontinua, che non al romanzo. Le vere e proprie novità emerse in questo periodo mi sembrano ridursi essenzialmente a tre nomi: Stefano Benni, Emilio Tadini e Alessandro Baricco. Il più noto, grazie anche alla sua attività giornalistica, è Benni. ·Dopo alcuni libri divertenti ma di limitato impegno, ha coltivato via via ambizioni sempre maggiori, cercando di conciliare il suo indiavolato piglio umoristico con progetti narrativi di ampio respiro. I risultati mi sembra gli diano ragione: Comici spaventati guerrieri ('86) e La compagnia dei celestini ('92) non possono davvero essere confinati nel ghetto di una letteratura "di genere". Anzi, tra i vari tentativi di raffigurare la realtà dell'Italia contemporanea nell'aspetto oscuro e inquietante degl'intrighi, dei misteri non risolti, dell'impasto mefitico tra corruzione e potere garantito e gestito da losche inconfessabili trame, La compagnia dei celestini risulta - ad onta della elementarità ideologica - molto più efficace, non dirò della Troga di Rugarli (' 87), ma anche del Pendolo di Foucault (' 88), seconda prova romanzesca di un intellettuale del calibro di Umberto Eco, o del suggestivo, seppur centrifugo e talvolta prolisso Pianeta azzurro (' 86) di un narratore di vaglia qual è Luigi Malerba. Tadini aveva esordito nel '63 (Le armi l'amore); dopo parecchi anni ha dato alle stampe un racconto lungo, L 'OpÙa (' 80), di cui non molti si sono accorti; con La lunga notte ('87) e soprattutto con La tempesta ('93) la sua fisionomia di narratore si è definita, imponendosi per maturità compositiva e stilistica. Ad esempio, nella Tempesta l'immagine della degradazione urbana e metropolitana - una Milano periferica, notturna e infernale - acquista vigore rappresentativo proprio per il fatto di passare attraverso un duplice filtro di voci narranti, quella del cronistatestimone (già narratore dei due libri precedenti) e dello stralunato protagonista, che si alternano, generando un'ambigua sospensione tra sproloquio ed epifania, tra rivelazione e delirio. Come Consolo, Tadini rifugge dalla lingua media; ma anziché puntare sul turgore espressionistico, sulla sovreccitazione retorica, sulla mescidanza di arcaismi e voci dialettali, sulla scrittura iperletteraria o sul pastiche, egli mira piuttosto a produrre effetti di stridore e dissonanza, sia per le scelte lessicali (divaricate tra registri alti e bassi, ma accomunate da una sorta dianti-preziosa asperità), sia in virtù di una sintassi spezzata, a tratti convulsa, che riflette scenicamente il tormentato monologare dei personaggi. I due libri pubblicati finora da Alessandro Baricco, Castelli di rabbia ('91) e Oceano mare ('93), colpiscono innanzi tutto per la vivace animazione della pagina, la sostenutezza del ritmo, gli agili e repentini trapassi dall'uno ali' altro registro espressivo. Ma la sicurezza stilistica, spinta a volte oltre i confini della spavalderia, è solo l'aspetto superficiale della narrativa di Baricco: che trova a mio avviso la sua motivazione più profonda nell'opposizione tra l'opacità dell'esistente e uno scatto immaginativo e fantastico rappresentato da una variopinta galleria di personaggi dediti a bizzarre o impossibili imprese, in bilico tra stravaganza e ribellione. A conclusione di una rassegna di necessità interlocutoria e 55

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==