Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

'83L'93 • LA LEff_E_RA_TU_RA _ ~---~--~------------' MUTAMENTI DI CLIMA ROMANZIVECCHIENUOVI Mario Barenghi Ripensando a quanto è avvenuto nella narrativa italiana degli ultimi dieci anni s'impone in primo luogo una constatazione anagrafica. Alla triste ma prevedibile scomparsa di una serie di illustri ottuagenari (da Bilenchi a Moravia, da Anna Banti a Angelo Fiore, fino al settantottenne Pratolini) s'è aggiunta una vera e propria falcidia tra le schiere dei sessantenni in piena attività: Calvino, la Morante, Primo Levi, Natalia Ginzburg, Manganelli, Sciascia, Cassola, Testori. E ancora Arpino, Chiara, Parise, Pomilio. Un elenco impressionante. Vien da pensare che si sia conclusa un'epoca: di fatto, in un breve arco di tempo sono venuti a mancare quasi tutti gli esponenti maggiori della generazione maturata durante gli anni Quaranta, attraverso le esperienze della guerra, della Resistenza, della deportazione. Potremmo dire, con una formula un po' manualistica, che la nostra cultura letteraria è uscita piuttosto bruscamente dal "secondo Novecento" per inoltrarsi nella nuovafin de siècle. E, come sempre accade, interpretare il passato è più agevole che non decifrare il presente. Nella fattispecie, inquesto decennio si è venuta delineando un'immagine critica del secondo Novecento alquanto differente da quella che aveva corso, diciamo, sul finire degli anni Settanta. Un'immagine nella quale spiccano due figure diverse in tutto, ma esemplarmente complementari: Elsa Morante e Italo Calvino. Sarà su di loro, presumibilmente, che i futuri storici della letteratura italiana misureranno gli sviluppi della narrativa di questo scorcio di secolo. A noi spetta invece innanzi tutto di sottolineare quanto difficile sia l'eredità che hanno lasciato. Per esempio, nel caso di Calvino - passato nel giro di pochi anni dal ruolo di intelligente, eccentrico "minore" a quello di grande classico della narrativa contemporanea - popolarità e fortuna critica fomentano la tentazione di interpretarlo in chiave riduttiva (e sostanzialmente fuorviante), ora separando la tersità della scrittura dal rovello etico-conoscitivo che la rendeva necessaria, ora degradando il primato della "visività" a un mero vezzo stilistico, ora assumendo l'idea dell'irriducibile eterogeneità e pluralità del reale come un dato pacifico, un astratto simulacro: un pretesto, infine, per eludere il confronto con la realtà vera. Il pericolo di impoverire la lezione dei maggion appare tanto più urgente, se pensiamo che negli anni Ottanta, a ben vedere, anche l'esempio di Umberto Eco è stato banalizzato. Lo strepitoso successo del Nome della rosa - unitamente alla circolazione di una categoria come quella di post-moderno, che legittimava il libero riutilizzo o riciclaggio di modelli culturali tradizionali - ha favorito un ritorno diffuso al genere del romanzo storico, che ha coinvolto anche scrittori provenienti da esperienze affatto diverse, di tipo avanguardistico o sperimentale (come Malerba o Vassalli). Ne è conseguita una sorta di ricompattamento dell' istituzione letteraria: emblematica la consacrazione ufficiale valsa a Dacia Maraini dalla Lunga vita di Marianna Ucrìa ('90). Ma a prescindere dal giudizio sulle singole opere, e dalle riuscite felici, che pure non sono mancate - come Le strade di polvere di Rosetta Loy ('87) o lo stesso Apologo del giudice bandito di Sergio 54 Atzeni ('86) - nell'insieme si è trattato di un fenomeno per il quale l'abusata etichetta di "riflusso", per una volta, funziona. Non è questo l'unico episodio di ripiegamento (più o meno prudente, meditato o opportunistico) su modelli consolidati. Fra i giovani narratori emersi alla metà degli anni Ottanta, che per una stagione per la verità piuttosto breve parvero portatori di un rinnovamento delle patrie lettere, più d'uno ha finito per orientarsi verso una produzione di medio livello per un medio pubblico mediamente acculturato, sulla falsariga di una prevedibile carriera di scrittore "di successo" (s'intende, relativamente alle ristrette dimensioni del nostro mercato librario). Così, tanto per fare qualche nome, di Andrea De Carlo o Daniele Del Giudice o del precocemente scomparso Pier Vittorio Tondelli si ricordano molto più volentieri gli esordi, che non gli sviluppi successivi. Altri sono rimasti fedeli agli assunti iniziali, perfezionando la strumentazione tecnica, ma sostanzialmente segnando il passo: esemplare il caso di Marco Lodoli, tessitore di sottili variazioni sui temi della marginalità, della rassegnazione, della precoce sconfitta esistenziale. Decisamente più originale ma per certi versi sconcertante l'evoluzione di Aldo Busi, senza dubbio il più dotato tra gli esordienti dello scorso decennio. Dopo due robusti romanzi - Seminario sulla gioventù ('84) e Vita standard di un venditore provvisorio di collant(' 85)-animati da una fresca energia vitale e da una viva capacità di caratterizzazione psicologica, Busi s'è andato avvitando su una visione del mondo sempre più ferocemente funerea, mentre la sua scrittura, già spigliata e mordente, ha subito una sorta di lussureggiante ipertrofia, che ha nuociuto non poco alla sua forza rappresentativa. Così, nell'attesa che Busi dia miglior prova del suo talento, tra questo gruppo di ex-giovani scrittori chi merita l'attenzione più fiduciosa è forse Claudio Piersanti, notevolmente maturato dai tempi di Casa di nessuno ('81) alle recenti prove (come Gli sguardi cattivi della gente, '90). La volontà, e insieme la difficoltà di elaborare narrativamente la realtà attuale, di tradurre in racconto fenomeni di largo interesse collettivo, sono palesi nella scelta di alcuni scrittori di dedicarsi alternativamente alla fiction e alla non-fiction, ovvero di contaminare in diversi modi la narrazione, il saggio, l'inchiesta, con risultati ora convincenti ora interlocutori, ma sempre significativi: è questo il caso di Sandro Veronesi, Sandro Onofri, Gianfranco Bettin. Maggiore fiducia nella "letteratura" si direbbe nutrano le scrittrici; in particolare, accomuna esperienze e scritture anche molto diverse tra loro un orientamento spiccato verso la concretezza delle situazioni quotidiane e delle dinamiche psicologiche. I risultati migliori non provengono tuttavia dal romanzo, quanto da forme di narrazione più agili e brevi. Non a caso, la più importante tra le scrittrici affermatesi negli ultimi anni, Clara Sereni, dopo l'atipica, incantevole serie di prose memoriali in forma di ricettario (Casalinghitudine, '87), e i racconti di Manicomio primavera(' 89) ha dato alle stampe una suggestiva storia familiare costruita essenzialmente per riquadri e segmenti, priva d'un vero afflato romanzesco (Il gioco dei regni, '93).

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