prio in nome di una responsabilità verso la società. La doppia verità degli intellettuali vicini al comunismo, stretta parente della gesuitica ipocrisia di gran parte della cultura cattolica, ha finito col condizionare, in sinfonia col processo che avveniva sul piano politico, l'intero clima culturale del dopoguerra. Non si trattò affatto, come alcuni hanno voluto vedere facendo propria quella prassi di autoassoluzione, di una dittatura che l'intellighenzia di sinistra avrebbe esercitato sull'insieme della cultura italiana; ma di una modalità di "essere intellettuale" caratterizzata dalla riduzione della verità a ideologia, in cui la comprensione e il giudizio sulla realtà potevano solo rinviare a verità "superiori". Quando queste sono entrate in crisi si è cercato di sostituirle con altri dogmi più "moderni" e alla moda; o, al contrario, di rifiutare qualsiasi riferimento a principi e valori generali. In questi anni di crisi e agonia del comunismo si è tentato, da parte degli intellettuali, di scaricare in gran parte la colpa dei propri atteggiamenti pubblici se non proprio dei propri convincimenti interiori sulle spalle robuste dei politici; quasi che fosse impossibile, come invece si dimostrò, che a fronte di qualche Togliatti vi fosse anche qualche Yittorini. Proprio sulla questione comunista, la cornice quintessenziale della problematica dell'impegno e della responsabilità nel dopoguerra, gli intel- '83/'93 • LA STORIOGRAFIA lettuali hanno mostrato una propensione all'abdicazione del proprio ruolo "morale" che faceva tutt'uno con quella a trovare col potere (o meglio, con "i" poteri) forme di compromesso e di reciproca convenienza. La "questione comunista" non è mai stata, per gli intellettuali, questione di cosa fosse il comunismo: nella storia, nella realtà concreta dell'Urss e poi delle democrazie popolari e della Cina e di Cuba, nella sua realizzabilità come progetto di giustizia e uguaglianza. Non lo è stata prima, quando "comprendere" il comunismo reale avrebbe potuto aiutare anzitutto a ripristinare tante verità (ed essere così "responsabili" verso il passato e il presente) e ad evitare fallimenti, errori, posizioni senza via d'uscita (responsabili, in questo caso, verso il futuro). Non lo è stata neppure in questi ultimj anni, quando avrebbe potuto essere occasione per ripensare al proprio ruolo e alla propria identità. Dire la verità comporta ànche, necessariamente, "dirsi" la verità: una strada non impossibile, ma che la cultura italiana ha sempre intrapreso a fatica, cercando di emarginare le minoranze che, cocciutamente, cercavano di percorrerla. Affrontare la "verità" del comunismo, cioè raccontare e capire la sua storia, significherà fare i conti, sia pure indirettamente, con la storia della cultura dell'impegno. E con la sua, forse involontaria, irresponsabilità. STORIE D'ITALIA REVISIONE RINNOVAMENTO Nicola Gal/erano L'ultimo decennio è stato anche per la storiografia contemporaneistica tutt'altro che privo di mutamenti. Il fatto è notevole soprattutto se pensiamo agli sviluppi della storiografia italiana di questo secondo dopoguerra, il cui percorso, benché contrastato, è stato invece assai più lineare fino almeno alla metà degli anni Settanta. In estrema sintesi (ma è una sintesi condivisa da molti) la ricerca e il dibattito storiografico erano ispirati alle tre culture politiche che la conclusione della guerra aveva legittimato come le uniche in grado di fornire un orientamento agli intellettuali: la cattolica, la marxista, la laico-liberale. In altre parole la storia dell'Italia contemporanea era stata una storia in senso forte politica: i suoi praticanti si sentivano parte integrante di grandi movimenti di opinione e, discutendo del recente passato, avevano l'ambizione di influire su o accompagnare gli sviluppi della società nel presente e verso il futuro. Anche quando il tema in discussione era all'apparenza più "tecnico" e lontano dalla politica - penso alla questione dello sviluppo economico del paese nei decenni immediatamente successivi all'Unità, a proposito del quale il liberale Rosario Romeo aveva polemizzato duramente alla metà degli anni Cinquanta con gli storici gramsciani - all'origine del conflitto stava il giudizio sulle forme della transizione a una società in via di rapidissima e tumultuosa industrializzazione quale era quella degli anni del boom. Era una concezione nobile e alta della storiografia, che, oltre a offrire contributi di qualità, trovava ampi spazi nel dibattito pubblico: gli storici 46 riempivano le pagine di quotidiani e settimanali, davano il tono alle discussioni culturali, entravano numerosi in Parlamento. Per un insieme di ragioni, che sarebbe troppo lungo discutere in dettaglio, questo modello è entrato in crisi definitivamente nel corso degli anni Settanta. Basti dire che, mentre da un lato le radici politiche della storiografia alimentavano un conflitto sempre più schiacciato sulle contingenze del presente e sempre più incline alle pratiche infuocate della mera controversia, dall'altro una maggiore attenzione alla storiografia non italiana immetteva nella ricerca stimoli e tematiche nuove. La sfida alla storiografia tradizionale venne portata, non a caso, dalla storia sociale, che non solo poteva contare su modelli stranieri consolidati (da quello francese delle" Annales", peraltro circolato in ambito gramsciano sin dagli anni Sessanta, a quello della storia marxista e culturalista alla Thompson, a quello della Sozialgeschichte di Wehler e Kocka, a quello, composito, della nuova storia sociale americana) ma si poneva, per la sua stessa titolazione, in polemica esplicita con la storiografia esistente. La costellazione della storia sociale è in realtà molto variegata; e solo una sua parte intese consapevolmente rinunciare a una implicita, e talvolta persino esplicita, intenzione politica. A sinistra, in particolare, la scelta della storia sociale fu un modo di aggirare le secche del controversismo per propo1Te un'altra idea di politica oltre che di storia: non quella praticata dall'alto, dai soggetti istituzionalmente deputati a quel compito (i governi, i
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