Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

'83/'93 • LA CULTURA DI SINISTRA ---~~~~~~~-~--------~~~-~~- LA 11 QUESTIONE COMUNISTA" Marcello Flores Gli ultimi dieci anni hanno visto maturare, esplodere e risolversi una delle quattro-cinque grandi "questioni" di questo secolo: la questione comunista. Si trattava - si è trattato - di una situazione che avrebbe dovuto rappresentare, per una intellighenzia storicamente orientata a sinistra e profondamente attraversata dal comunismo, un'occasione unica e irripetibile di riflessione e autoriflessione. Le reazioni a quanto avvenuto nell'universo comunista (dal fenomeno di Solidarnosc a quello di Gorbaciov per terminare al crollo del muro di Berlino e alla dissoluzione dell 'Urss) dovranno costituire un capitolo importante in una futura storia della cultura: anche se per quantità di materiale a disposizione non si potrà forse andare al di là di un paragrafo. Paradossalmente, infatti, una cultura come quella italiana dal dopoguerra in avanti fortemente segnata e condizionata dal rapporto con l'ideologia comunista è apparsa singolarmente silenziosa o reticente di fronte al terremoto geopolitico e ideologico che ha caratterizzato buona parte di quest'ultimo decennio. Tra i grandi nomi (ma chi sono, ormai, dopo la scomparsa di Pasolini, Calvino e Sciascia, i grandi intellettuali?) solo Norberto Bobbio ha potuto e saputo offrire una lezione di lucidità a cui, pedissequamente e con umiltà sospetta, si sono accodati un po' tutti. La maggioranza ha preferito limitarsi a dettare qualche riga al giornalista di turno; evitando di affidare a una riflessione pubblica i propri pensieri, probabilmente confusi e tormentati, contraddittori e incerti. Si può tuttavia, evitando un esame più dettagliato delle singole posizioni, identificare tre comportamenti prevalenti: il primo è stato quello di chi, in modo non sempre omogeneo, ha voluto rivendicare il "proprio" comunismo, identificando così autobiografia e storia e appiattendo sulla propria esperienza personale avvenimenti e trasformazioni che hanno colpito e coinvolto milioni di persone (la rivendicazione del marxismo da parte di questi soggettivisti scatenati potrà fornire qualche materiale allo studioso delle ideologie nell'Italia del dopoguerra). 11 secondo atteggiamento è stato quello di stendere rapidamente un velo di oblio sul passato (anche il proprio) impegnandosi a cantare le lodi del "nuovo" liberalismo e capitalismo trionfanti su dimensione ormai universale. Il terzo è stato quello di chi, con pervicacia pari spesso all'ottusità, ha rivendicato una propria coerenza democratica accusando quasi tutti gli altri di cedimenti opportunistici e di corresponsabilità in crimini e malefatte. La capacità critica degli intellettuali, così, più che sul tentativo di cogliere la grandiosità, novità ed anche tragicità del processo in corso, si è riversata sui limiti e sulle debolezze dei propri colleghi ed ex compagni. La polemica "tra" gli intellettuali, com'è noto, ha sempre costituito una parte cospicua dell'attività "degli" intellettuali. In questo caso, tuttavia, il silenzio o la supe1ficialità con cui si è affrontata la questione costituiscono il 44 segno di una rimozione collettiva di vasta portata. Per quasi quarant'anni il rapporto col comunismo è stato uno dei filtri principali attraverso cui è passato e si è manifestato l'impegno degli intellettuali, il loro modo di rapportarsi con la società e col potere. Quel rapporto si è poi esaurito, individualmente in momenti diversi ma collettivamente proprio mentre le società comuniste iniziarono a dar segni e segnali di tensioni e cambiamenti, per l'appunto all'inizio degli anni Ottanta. La volontà di capire le società comuniste, che in modo parziale e contraddittorio si era tuttavia manifestata fin verso la fine degli anni Settanta, cominciò a venir meno proprio quando nuovi elementi di conoscenza e processi di trasformazione avrebbero permesso di avanzare ipotesi meno ideologiche e retoriche di quelle prevalenti fino ad allora. Non è facile individuare le cause di questo processo che è stato insieme di disaffezione e di disinteresse, di difficoltà a comprendere e di mancanza di curiosità. È possibile che vi abbiano concorso alcuni tragici "eventi" degli anni Settanta, come ad esempio la deriva polpotiana della vittoria comunista nel Sud-est asiatico o gli esiti terroristici culminati nell'assassinio di Moro di un decennio di ribellismo diffuso e di speranze e chiacchiere rivoluzionarie. Qualsiasi risposta si voglia dare, tuttavia, non si potrà prescindere dal prendere in considerazione un problema che ha accompagnato lungo tutto il secolo gli intellettuali italiani: e cioè il loro rapporto con la verità. Parlando genericamente di intellettuali non si vuol dire, naturalmente, "tutti" gli intellettuali, e neppure i maggiori tra es i, quasi sempre dimostratisi liberi e originali, anche nei momenti di appiattimento e conformismo. Si intende, invece, il "clima" culturale, la nota intellettuale dominante che spesso anche i migliori non riuscirono o non vollero combattere o non poterono soffocare e ignorare. Dei differenti "climi" culturali che hanno scandito la storia dell'Italia contemporanea, una nota permanente è sempre stata la "doppia verità" che ha caratterizzato la partecipazione e l'impegno degli intellettuali al formarsi di una "opinione" pubblica. li bisogno di offrire un'identità "forte" al proprio lavoro e un' appartenenza collettiva e comunitaria alla propria esperienza individuale non ha significato solo tessere col potere un rapporto più compromissorio di quanto si proclamava, ma anche instaurare una pratica di autoassoluzione e di sfacciataggine, in cui il credersi diversi è andato di pari passo al non provare vergogna di nulla. L'intellettuale italiano ha potuto così coniugare il massimo dell'impegno e il massimo dell'irresponsabilità, smentendo la tradizione che voleva invece - a partire almeno da Zola e dall'affare Dreyfus - intervenire nelle vicende pubbliche pro-

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