l l DI MALAVOGLIA Andrea Casalegno Su quotidiani e settimanali - i pochi, almeno, che riesco a seguire con regolarità - le pagine sedicenti culturali sono, mediamente, di gran lunga le peggiori. Per due semplici ragioni: perché non fanno vendere (almeno, così si crede) e perché i giornalisti, capiservizio e direttori compresi, sono sempre più ignoranti e felici di esserlo, come tutti gli italiani. Altre e più importanti le cure che premono. Ma un giudizio generico, per quanto inconfutabile, è un giudizio ingiusto. Differenze ci sono e nelle cose umane - a maggior ragione nelle humaniora - contano appunto le differenze. Diciamo allora che sui due magazine più diffusi la cultura è per lo più impresentabile per futilità, imprecisione, arroganza o schietta idiozia (si salvano naturalmente i collaboratori di grande e meritata fama, e pochi altri). Quale sia il peggiore è questione aperta, o meglio, è una gara aspramente combattuta che, variandone l'esito di settimana in settimana, non si presta a conclusioni. Quotidiani. Mi limiterò a tre, escludendo "Il Sole-24 Ore", perché lavoro alle pagine "Commenti e dibattiti" e scrivo regolarmente sul supplemento della domenica. Il peggiore è di gran lunga il "Corriere della Sera"; "La Stampa" è assai meglio; ma nonostante tutto la più utile rimane "la Repubblica". Poiché i miei gusti personali ovviamente non interessano (come diceva Massimo Mila, il giudizio critico dovrebbe andare oltre il "a me piacciono le bionde, a te le brune"), cercherò di aggiungere qualche sommaria motivazione. Il "Corriere della Sera" è dei tre quello che tratta la cultura nel modo più simile ai magazine. Aggiungendovi una sua personale convinzione: la cultura è noiosa, se non addirittura respingente (per dirla con grevezza tutta romana, al lettore "non jene pò ffregà dde meno"), e perciò va trattata in modo "interessante". E al "Corriere", chissà perché, sono convinti che "interessanti" siano solo le cose forti: i pugni nello stomaco e le belle ragazze. Poiché in cultura le seconde non sempre abbondano, per rendere interessanti le sue pagine resta una cosa sola, il pugno nello stomaco, che culturalmente si chiama "polemica". Ecco perché le sue pagine vedono un fiorire di artificiose, noiose, fastidiose "polemiche", per lo più suggerite dalla lettura affrettata di qualche risvolto di copertina e imbastite con frettolose telefonate, qualche volta anche mal trascritte o malintese. La cultura, che è fatta di robustissimi fatti, sia pure mentali, si trasforma così in un dilagare di estemporanee opinioni, quasi sempre fuori posto e qualche volta del tutto cretine. "La Stampa" è meglio perché apparentemente adotta lo stesso stile, ma lo usa con garbo e talento maggiore, prima di tutto grafico. La sue pagine culturali sono quasi sempre bellissime, e poiché oggi nell'informazione parola e immagine sono inseparabili, una grafica più bella implica quasi sempre una maggiore chiarezza di idee. Ma anche i suoi contenuti (recensioni, elzeviri, e così via) sono mediamente, se non sbaglio, più corretti e precisi. "La Repubblica" resta il giornale più utile agli operatori culturali, perché è il più ricco, il più tempestivo e, incredibile a dirsi, il meno presuntuoso, cioè il più rispettoso dei contenuti, letterari o scientifici. Quanto alla sconcertante ampiezza di oscillazione nella qualità degli articoli di cultura, questa è una caratteristica di tutta l'informazione culturale perché è una caratteristica del suo oggetto: la cultura presente. Va quindi considerata fisiologica. Patologica invece è la scarsa cura redazionale delle pagine culturali: didascalie sbagliate, titoli fuorvianti o del tutto scemi, luoghi comuni e stereotipi come se piovesse (la fantasia sembra esercitarsi esclusivamente nell'adattamento alle esigenze di titolazione dei titoli degli ultimi film), dati scopiazzati malamente e non verificati neppure quando sarebbe facilissimo, banali ma fastidiosi refusi ne rendono la lettura spesso umiliante. I redattori lavorano, evidentemente, di malavoglia, convinti di essere confinati in reparti di punizione. E i direttori, se hanno risorse umane e finanziarie da investire, non le sprecano certo per le pagine culturali. Tre poesie Patrizia Cavalli Frenetica luce smisurata che piaga i muri e triplica le ombre, che crepita nel sonno e nel mio corpo penetra e dalle stanze chiuse lo distoglie perché sia esposto al vanto del mattino. Ecco la vivida materia che si solleva e scalpita, carri veloci, inseguimenti e guerre e per il cuore alte cerimonie. Ma dove sono i corpi, i miei compagni? Lenti e domenicali si stiracchiano e dopo un bagno lungo che li imbambola stanchi si chiudono al buio dei giornali. Chiusi e sospesi tra correnti sparse senza vedere mai la curva intera del cielo, noi cittadini nei corridoi fetidi, a noi la città non è riparo. Acre novità della stagione, il freddo ai piedi, preistoriche minacce. Ecco allora subito che nel petto preme il riflusso perduto degli abbracci e si ripete la recita del nome. Settembre chiude, gli amici se ne vanno, le famigliole stanno e si apre il negozietto. Mi chiamassero, non so, per una guerra per qualche impresa terribile, la spada fiammeggiante addosso ai nemici mi sentirei invincibile e se anche muoio, pazienza. Ma qui siamo soltanto al batticuore o, bene che vada, al furore sessuale, insulsa eredità meridionale. La luce esagera e le stagioni fanno quello che gli pare. E io dovrei restare qui, ferma, a guardare? 33
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