Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

'83/'93 • LA CRITICA LEffERARIA -------------------------------- 5ULLA TEORIA LETTERARIA NOTIZIEDALLACRISI Franco Brioschi Notizie dalla crisi, intitola non a caso Cesare Segre la sua ultima silloge di studi (Torino, Einaudi 1993), preceduta appunto da una sintetica e lucida analisi della situazione in cui versano attualmente la teoria e la critica letteraria. Una crisi "anomala", egli la definisce, e ha ragione. Perché in effetti, se ci guardiamo intorno, le cose non sembrerebbero poi andar troppo male. Le grandi battaglie metodologiche suscitate negli anni Sessanta dalle proposte strutturaliste, così come gli sviluppi impetuosi e aggressivi della semiotica nel decennio seguente, hanno caratterizzato una lunga stagione "rivoluzionaria" ali' interno delle scienze umane: la posta della discussione era un vero e proprio "mutamento di paradigma", e, promosso o avversato che fosse, iIdato caratteristico era che di questo mutamento si discutesse. Vero è che il decennio oggi alle nostre spalle mostra invece, a uno sguardo retrospettivo, connotati assai diversi. Ma non è detto che siano connotati negativi. li nuovo paradigma strutturalistico-semiologico si è mostrato capace, in Italia, di superare molte rigidità di origine: la parola d'ordine della "centralità del testo" si è tradotta, più che in un'assiomatica intransigente, in un'assidua ricerca e messa a punto di strumenti descrittivi, vincolati a loro volta, più che ali' imperativo di uno studio puristicamente "intrinseco", ai dettami della concretezza filologica; e mentre altrove il fervore razionalistico degli esordi si inabissava nei paradossi vertiginosi della "scrittura", finendo per dissolversi in quella specie di koiné neoheideggeriana che va sotto il nome di decostruzionismo, qui si guardava semmai all'orizzonte sovraordinato della "cultura", in quanto spazio complessivo della comunicazione umana, quale veniva riscoperto, per fare un esempio, da Lotman. Si capisce dunque che, alla lunga, i fuochi della controversia si siano spenti. Oggi le scienze umane, almeno per quanto concerne la teoria e la critica letteraria, vivono in una fase di ricerca "normale". Non tanto perché il nuovo paradigma abbia soppiantato il vecchio, quanto perché, una volta abbandonate le zavorre che ciascuno si portava dietro (iI riduzionismo eteronomo da una parte, l'autosufficienza formalistica dall'altra), nessuno aveva più motivo di contendere. Tanto valeva tornare al proprio lavoro di storici e interpreti, facendo tesoro del dibattito avvenuto come di un'occasione tutto sommato conclusa di chiarimento sugli scopi e sui metodi della critica. Nulla di cui sorprenderci, dopotutto. Le fasi di ricerca "normale" sono fisiologiche, nella vita.di una disciplina. E se il clima confuso dei giorni sembra esso stesso invitarci a una sorta di ripiegamento sui nostri studi, intenti più a fornire un prodotto ben fatto rispetto a canoni lungamente maturati che non a eccitare polemiche intellettuali di dubbia suggestione, non è detto che questo sia di per sé un danno, e non piuttosto una forma di moralità professionale. Pure, il processo di canonizzazione presenta qualche rischio. Di qui, anzitutto, quello che Segre giustamente indica come sintomo principale della "crisi", la reticenza ad affrontare le zone d'ombra residue: supponiamo, per restare ad alcuni dei suoi esempi, il "dogma del testo autotelico" è ancora sostenibile? la separazione della teoria letteraria dall'estetica, e più in generale 28 il suo affrancamento da un più rigoroso controllo filosofico, non è un limite che sarebbe ormai venuto il momento di valicare con un po" più di coraggio? Soprattutto, la tensione fra congettura ardita e confutazione ingegnosa non ha fatto in tempo a diventare costume e abito concettuale, come avrebbe potuto e dovuto. Al di là dello scrutinio rigoroso della singola analisi testuale, è proprio sotto il profilo teoretico, a mio avviso, che si avverte lo stallo. Dopo esserci trent'anni fa diligentemente aggiornati su Saussure, Hjelmslev e Jakobson, quanti di noi hanno continuato a seguire, sotto il profilo teoretico, i percorsi della linguistica contemporanea? Se lo avessimo fatto, ci saremmo accorti che l'indagine sulla dimensione pragmatica del linguaggio, mutuata dalla filosofia analitica di Austin e Grice e poi di Searle, ha nel frattempo profondamente modificato l'immagine strutturalista del linguaggio come entità oggelliva, dotata di una sua aseità separata dall'uso; o meglio, se si vuole, ha restituito pienezza di significato all'aforisma di Saussure, secondo cui l'oggetto linguistico, a differenza dell'oggetto fisico, "lungi dal precedere il punto di vista, si direbbe creato dal punto di vista": dal momento infatti che i valori linguistici, per esempio, dei suoni che pronunciamo non sono determinati dalla loro sostanza fonica, ma dalle convenzioni che ne regolano la classificazione, "la lingua non è un'entità, e non esiste che nei soggetti parlanti". Purtroppo, questo aspetto della riflessione di Saussure è stato largamente trascurato dai suoi più tardi seguaci a favore di un'ontologia del "sistema". Ed ora i suggerimenti della pragmatica sono accolti in modo estremamente riduttivo, più come tecniche confinate nell'ambito dell'analisi testuale, ancora una volta, e non come proposte teoriche per eccellenza, destinate a investire i fondamenti della nostra speculazione. Né ci siamo accorti che proprio questa ipostatizzazione (lo slogan secondo cui non siamo noi a parlare la lingua, bensì è la lingua a parlarci) costituisce il più notevole trait d'union fra strutturalismo edecostruzionismo. Proprio perché alla deontologia delle convenzioni collettive e della memoria storica abbiamo accettato di sostituire l'ontologia del "sistema", il passo è stato poi così breve per approdare all'heideggeriana Parola che Parla. E proprio perché il testo è concepito come una realtà noumenica, noi non potremo mai afferrarlo per ciò che è in sé e per sé, né ci rimane altro se non abbandonarci al caleidoscopio fenomenico delle interpretazioni. Nulla di più conseguente rispetto alle premesse, anche se gli esiti non potrebbero essere più divaricati: là una fiducia scientistica nell'autoevidenza dei "dati", qui il naufragio nella Deriva dei Segni. Il nichilismo, insomma, è sempre un calco dell'assolutismo. E su questo nesso sarebbe il caso di pensarci un poco nel momento in cui respingiamo tali conseguenze, senza dubbio abnormi rispetto agli intenti originari, ma non per ciò meno radicate nella medesima tradizione che vengono sfigurando. Come che stiano le cose, io credo che tanto più sicuramente scanseremmo il nichilismo se ci decidessimo ad assumere un atteggiamento meno cauteloso nei confronti delle implicazioni

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