(ediz. americana 1959, trad. it. 1962, li Saggiatore). Modelli da cui non era facile ereditare, da cui non era facile imparare: perché in essi, dietro l'apparenza di un metodo applicabile ad altri oggetti e a situazioni diverse, agiva uno stile di pensiero che era anche stile letterariamente pregevole. In quei libri la pratica allora di solito definita come "demistificazione" esibiva teorie, combinazioni di concetti, qualche maneggevole grimaldello e attrezzo dialettico, o semiologico, o sociologico. In realtà, soprattutto Adorno e Barthes erano degli eccellenti saggisti, dei virtuosi del la prosa condensata, aforistica. Ad un primo sguardo potevano essere scambiati per autori un po' esoterici, di elzeviri particolarmente taglienti. Ma con l'integrazione di nuove scienze socia I i, psicologiche e linguistiche erano piuttosto gli eredi della migliore saggistica tedesca e francese. Gide e Yaléry, Proust e Breton alle spalle di Roland Barthes, che vi aveva aggiunto di nuovo Brecht e Saussure. E alle spalle di Adorno l'aforistica di Nietzsche e quella di Kraus, nonché un abbondante, benché straniato, lessico hegelo-marxista. La filosofia, in Adorno, dopo essere diventata teoria sociale e critica dell'ideologia secondo il modello di Marx, si esprimeva nella forma di una frammentaria e anti-sistematica critica della vita morale e intellettuale quotidiana, socialmente umiliata, degradata e distorta. La critica letteraria, in Barthes, passando per una teoria dei generi letterari moderni (grado zero della scrittura e altro), diventava smontaggio delle mitologie contemporanee, critica dell'ideologia applicata alle sue micromanifestazioni cinematografiche, giornalistiche, pubblicitarie: cioè alle merci della cultura di massa. Sia Adorno che Barthes aggiornavano al Novecento, nella cornice della critica dell'ideologia, una lunga tradizione moralistica, l'amara scienza dei caratteri e delle trappole dell'autocoscienza deviata: come se usassero insieme Seneca e Marx, La Rochefoucauld, Freud e Saussure. Il loro linguaggio, contratto, elegantemente allusivo, gelido, ironico, faceva pensare a un pubblico ristretto: a una specie di élite intellettuale senza influenza e senza potere, che pazientemente, stoicamente si autodifende dalla volgarità e dalla stupidità della cultura di massa, intesa come estensione e dilatazione della cultura piccolo borghese. Nel libro di Wright Mills, respiro e orizzonte comunicativo erano diversi. Anche in Mills continuava a parlare una tradizione critica radicale, quella americana, con al centro uno strenuo isolato come Yeblen (a cui Mills dedicò uno splendido saggioritratto). Ma, come si vede dal suo linguaggio e dai suoi argomenti, Wright Mills conta su una calda comunicativa capace di trasformare un pubblico di massa in opinione pubblica consapevole e criticamente attiva. Ecco il modo in cui formula qualcosa di molto vicino alla situazione da cui partivano anche Adorno e Barthes. Ma qui la cornice di pubblico è più ampia e si ha l'impressione che il lettore potenziale di Wright Mills possa essere anche il comune e medio cittadino americano, mediamente dotato di coscienza di sé e di cultura: "L'uomo del nostro tempo" comincia Mills "ha sovente la sensazione che la sua vita privata sia tutta una serie di trabocchetti e che i suoi problemi, le sue difficoltà, trascendano la ristretta cerchia in cui vive. Sensazione il più delle volte esatta: l'esperienza e l'azione dell'uomo ordinario sono circoscritte alla sua orbita personale; la sua visuale e i suoi poteri non oltrepassano i limjti dell'impiego, della famiglia, del vicinato; in ambienti diversi dal proprio si muove male, rimane spettatore. E quanto più si fa strada in lui la coscienza, ancorché vaga, di ambizioni e di minacce che trascendono il suo mondo d'ogni giorno, tanto più gli pare d'essere in trappola" (p. 13). La forma di critica che Mills propone, definendola immaginazione sociologica, è una specie di pedagogia critica per l'allargamento della propria coscienza pubblica e della propria visione della struttura sociale in cui si è immersi: "L'immaginazione sociologica permette a chi la possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane. Gli permette di capire perché, nel caos dell'esperienza quotidiana, gli individui si formino un'idea falsa della loro posizione sociale. Gli offre la possibilità di districare, in questo caos, le grandi linee, l'ordito della società moderna, e di seguire su di esso la trama psicologica di tutta una gamma di uomini e di donne. Riconduce in tal modo il disagio personale dei singoli a turbamenti oggettivi della società e trasforma la pubblica indifferenza in interesse per i problemi pubblici" (p. 15). La scienza sociale, la sociologia è per Mills lo strumento culturale più adeguato per esercitare una critica della società, della cultura e della vita quotidiana: una critica in grado di esercitare un'influenza critica vasta, migliorando la qualità e la funzione pratica dell'opinione pubblica. "L'immaginazione sociologica ci permette di afferrare biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell'ambito della società" (p. 16), e ci mette in grado di interpretare e magari risolvere le difficoltà personali, di cui facciamo esperienza in un ambiente ristretto, guardando ai problemi di struttura sociale. Ed ecco la sua descrizione sintetica degli idoli pubblici da smascherare, della cultura come ideologia, cemento, copertura, sostegno del potere: "Chi detiene il potere cerca di giustificare il suo dominio sulle istituzioni collegandolo, come se si trattasse di una conseguenza necessaria, con simboli morali, emblemi sacri e formule giuridiche largamente accettate e riconosciute. Queste concezioni centrali possono riferirsi ad una divinità o a più divinità, al 'voto della maggioranza', alla 'volontà del popolo', alla 'aristocrazia dell'ingegno e della ricchezza', al 'diritto divino del re', o alla pretesa investitura straordinaria del governante. Gli scienziati sociali, seguendo Weber, chiamano queste concezioni 'legittimazioni' o anche, a volte, 'simboli di giustificazione'. Pensatori diversi hanno usato termini diversi per indicarle: Mosca le ha chiamate 'formule politiche' o 'grandi superstizioni', Locke 'principio di sovranità', Sorel 'mito del potere', Thurnam Arnold 'folklore', Durkheim 'rappresentazioni collettive', Marx 'idee dominanti', Rousseau 'volontà generale', Lasswell 'simboli di autorità', Mannheim 'ideologia', Herbert Spencer 'sentimenti pubblici': queste ed altre sono le prove del posto centrale occupato dai simboli dominanti nell'analisi sociale" (p. 46). Ogni potere, per reggersi, ha bisogno di una cultura e del suo potere di seduzione. Ne ha tanto maggiore e costante bisogno il potere moderno di tipo liberale e democratico, che si regge più sul consenso che sulla coercizione. Ma ogni consenso, anche quando esclude la coercizione, ha bisogno di un uso strumentale della cultura. Ha bisogno di usare la cultura, o almeno una parte di essa, come semplice mezzo di autodifesa apologetica: "l'autorità (potere giustificato dalla fede di chi obbedisce volontariamente) e la manipolazione (potere strappato ali' impotente senza che questi se ne renda conto)" sono secondo Mills due momenti essenziali della cultura come conservazione della stabilità sociale data. D'altra parte, Mills sembra affiancare alla ricerca sociologica in senso stretto, una sorta di "arte intellettuale" (l'appendice del libro è dedicata a questo) molto simile all'impresa critica, di tipo più individuale, saggistico e letterario, di Adorno e di Barthes. L'immaginazione sociologica, benché appunto sociologica, nu23
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==