'83/'93 - LA CRITICA DELLA CULTURA ~----------------~----~--- C'ERA UNA VOLTA••• Alfonso Berardinelli In anni non molto lontani, ben presenti, credo, alla memoria di molti, la parola cultura, più che sedurre, metteva in sospetto. Più precisamente, forse, seduceva nell'atto di sospettare di sé. Ciò che attirava nella cultura era ancora la sua annosa lite con se stessa, il suo inguaribile conflitto con le condizioni sociali, istituzionali della propria esistenza. Prodotti e attività culturali sembravano meritare anzitutto un distaccato, se non aggressivo, esame critico. Non per fare rievocazioni, ma solo per fissare un punto di partenza non troppo remoto, non troppo storico, del discorso, ricordo che ancora nella prima metà degli anni Sessanta quella venerabile attività, tipicamente moderna, poi decaduta e a sua volta colpita da sospetto, chiamata "critica della cultura" godeva ancora di uno straordinario prestigio. Antropologi culturali (Claude Lévi-Strauss), semiologi più demistificanti che apologeti (Roland Barthes), sociologi critici (Charles Wright Mills) e infine un numero crescente di neo-marxisti (gran parte della generazione intellettuale più giovane) lavoravano tutti a distanziare criticamente la nozione di cultura. Cultura tendeva a confondersi con ideologia. Velo illusorio, sublimazione falsificante, apparato di giustificazione e copertura dei sistemi di potere: altri nomi di quella che nell'Ottocento letterario anti-borghese si sarebbe chiamata, più o meno, ipocrisia. Secondo questo schema, che non richiede troppe chiarificazioni, la classe o le classi al potere dichiarano ideali e valori che nella prassi sociale e nella vita quotidiana vengono sistematicamente ignorati e traditi. La stessa cultura, in quanto istituzione pubblica, in quanto funzione dello stato, apparato ideologico, e in quanto momento del mercato, in quanto merce, era in conflitto con se stessa. Fra le due facce del l'esercizio intellettuale (artistico, filosofico, scientifico), quel la che si esprime in una professione e quella che nasce da una vocazione, veniva notato un conflitto irriducibile. In termini un po' più poveri e diretti: il disagio, il rifiuto, la critica, nascevano dal fatto che all'intellettuale e all'artista il sistema sociale stabilito e il potere chiedevano cose molto diverse da quelle per le quali un intellettuale e un artista lavorerebbero liberamente. Da un lato, quindi, le condizioni sociali entro cui si esercita una professione (accettare le regole della corporazione, fare proprio il codice della comunità scientifica, della società letteraria, ecc.). Dall'altro l'autenticità (come si diceva nella tradizione esistenzialista), la vocazione, l'esercizio libero del pensiero, la libera espressione (un insieme di valori e di doveri, cioè, ricavati dalla tradizione culturale e dalla sua continua re-interpretazione in rapporto al presente). Situazione instabile e ambigua: che ha fatto per molto tempo dei maestri elementari e dei pittori, dei medici e degli architetti, dei professori di filosofia e dei giornalisti, altrettanti potenziali ribelli. Si potrebbe dire che dall'illuminismo in poi, da quando le idee fondamentali dellaculturacritica(le idee di libertà e di uguaglianza, l'idea di una società razionale e giusta da realizzare) sono entrate in conflitto con la stessa società borghese, da allora in poi 22 e per molto tempo, fino forse agli anni Sessanta, la migliore letteratura moderna è stata una forma di critica della società e di critica della cultura. Descrizione e analisi, perfino narrazione romanzesca o monologo lirico, come svelamento, rivelazione della vera morale e dei reali legami della socialità moderna: rispettabilità, ricerca del profitto, della sicurezza, repressione e degradazione dell'eros, ossequio formale e retorico a valori di fatto traditi. Chiunque abbia letto anche una sola pagina di Baudelaire, di Tolstoj, di Marx o di Kierkegaard sa quanto radicale e violentemente critica, anzitutto contro se stessa, sia stata la letteratura e la filosofia dell'Ottocento che più influenza ha avuto nel Novecento. E nel Novecento, sia le tendenze propriamente d'avanguardia, sia le esperienze oltranzistiche e anarchiche, sia quelle neo-tradizionali e neo-classiche (Joyce e Breton, Gadda e Benn, Yaléry e Eliot: tanto per fare qualche nome da museo) inglobano un potente principio critico nel processo della composizione e dell'invenzione letteraria. Arte che critica l'idea di arte, letteratura che nega e disarticola se stessa, o che si ridefinisce di fronte a un pubblico sconcertato, quella del Novecento ha voluto più scuotere che sedurre, più denunciare (e autodenunciarsi) che intrattenere. Tutta la produzione poetica, narrati va, teatrale e teorica di Brecht, per esempio, è una continua critica in atto dell'ideologia borghese del l'arte: cioè della società borghese dentro il settore ipocritamente specializzato e consolatorio dell'arte. E Céline, con la fangosa esplosione dei suoi romanzi-sproloquio, fa di tutto per rendere odiosa e inaccettabile la propria attività letteraria e la propria stessa persona alla comunità intellettuale di sinistra e alla presunta raffinatezza dei professionisti dello stile riuniti intorno alla "Nouvelle Revue Française". Non ho intenzione di rifare in poche pagine la storia della letteratura moderna. Tra l'altro, anche se fosse possibile, sarebbe insufficiente. Anche solo per fornire qualche chiarimento sulle origini del concetto di ideologia e sulla vocazione critica come esercizio individuale e laico, dovrei parlare di Bacone e della sua demolizione degli idola o pregiudizi collettivi, e del razionalismo ragionevole, autobiografico e scettico di Montaigne: i due inventori moderni della forma critica per eccellenza, la forma saggistica. Torno invece, ragionevolmente e in forma indirettamente autobiografica, alla situazione di circa trenta anni fa: forse l'ultimo periodo in cui il rifiuto delle seduzioni della cultura e la cultura come critica estremistica di se stessa hanno avuto piena espressione, e un loro fascino contagioso. Ta i molti possibili, vorrei isolare tre modelli straordinariamente maturi, a volte forse eccessivamente sofisticati, e comunque geniali, di critica della cultura. Theodor Adorno, Minima moralia (ediz. tedesca 1951, trad. it. 1954, Einaudi), Roland Barthes, Miti d'oggi (Mythologies, 1957, trad. it. 1962, Lerici, ora Einaudi) e Charles Wright Mills, L'immaginazione sociologica
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