Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

revisione di tutti i servizi sulla base delle spese e del rendimento. Fu allora che qualcun altro scoprì che "la cultura è una risorsa, un investimento", e per l'operatore cominciò un periodo meno spensierato ma infine più garantito (garanzie date ancora una volta più all'immagine che all'identità o, se si preferisce, al salario). Se il settore creativo e ricreativo era già da tempo in difficoltà, adesso veniva minacciato anche quello didattico-assistenziale, e gli operatori potevano insistere e resistere soltanto dimostrando che la loro attività e il loro specifico avevano un indiscusso e celebrato valore; e, come si sa, non c'è valore che non si possa tradurre in ricchezza economica, se no che valore è? Così, dentro al servizio, si dovette ripescare il tradizionale e nobile contenuto e ridare la maiuscola ali' Arte, al Teatro, alla Musica, ecc ... invece che puntare sulla novità metodologica e sperimentale della forma: dall'avanguardia toccò tornare ai classici, dalla vaghezza degli interventi preformativi si ripiegò sulla difesa e celebrazione dei più solidi "beni culturali". Infine, se la cultura è risorsa, i musei e gli archivi sono le sue banche: sono i quadri, i monumenti e semmai i paesaggi, quelli che gli stranieri sono sempre disposti a comprare. Dunque, se la cultura è investimento, il suo immediato e comprensibile rendimento è quello del turismo. Oggi, gli ultimi operatori che hanno davvero credito, si chiamano direttamente "dei beni culturali", e, assieme a loro, solo i bistrattati e giocosi animatori dei villaggi vacanze e i finti contadini e abili cavallerizzi delle vecchie fattorie adibite al nuovo agroturismo hanno acquistato un vero prestigio. Si dirà che il gretto economicismo ha almeno liberato l'attività culturale dal soffocante abbraccio della politica, ma non è così. È un'altra la cultura che interessa per davvero il Mercato. Se da sempre la cultura è divisa in due - dal tempo della medievale Grande e Piccola tradizione - anche quel mercato che tutto accetta e tutto uniforma separa nettamente i consumi culturali a. seconda del l'Alto o Basso rendimento e gradim~nto. È la cultura televisiva e dei mass media quella che, malgrado tutte le ingerenze e le lottizzazioni politiche, èdi assoluta pertinenza del mercato. Quella dei piccoli servizi locali è invece interamente nelle mani degli enti omonimi: dominio dei politici, cambia orientamento e modalità soltanto perché si adegua e, più che alla stretta finanziaria, obbedisce all'egemonia culturale del mondo economico (e dell'economia come metafora del mondo), seguendone l'ideologia e le ricette appena per restare "in". Malgrado quanto si è detto e criticato, conviene dunque stare dalla parte degli operatori: con la dovuta ironia, che è poj autoironia dal momento che ci si riconosce coinvolti a pieno titolo nella categoria e nella sua breve e non edificante storia. Gli sprechi delle feste di prima e dei servizi di poi, sono stati davvero minimi: forse anzi - è il caso di ammetterlo - si trattava allora, più di adesso, di veri e propri investimenti. Adesso, la cultura come risorsa richiede cifre ben più elevate- ancorché Europee! -di quante ne siano fin qui occorse per gli esperimenti e le ricerche di vita e di cultura di un'intera generazione. Adesso, ancora una volta i politici e gli amministratori d'assalto credono di dover continuare a governare anche quanto è di per sé sempre stato ingovernabile. Il "culturismo" è la loro nuova e muscolosa bandiera: quella coniugazione, tanto redditizia quanto beota, fra istanze di conservazione e restauro (non soltanto dei monumenti, ma anche delle più arcaiche visioni e delle più trite convenzioni artistiche e spettacolari) e le esigenze del botteghino - che poi sono sempre quelle del miraggio del grande pubblico e del largo consenso elettorale, da ottenere stavolta-tramite il rilancio di una gratificante immagine della propria città d'arte e cultura. Ognuno dei mille centri storici d'Italia, malgrado la crisi, sente il compito morale di rispolverare i suoi arredi urbani, catalogare scientificamente i suoi soprammobili, informatizzare i luoghi di ritrovo e i ristoranti e, perché no?, incoraggiare le sagre alimentari del suo contado. I corsi di formazione del personale alberghiero vanno per la maggiore, anche se è pur vero che, nelle pieghe del bilancio, resistono quasi tutte le iniziative, i progetti, gli interventi che abbiamo nominati fin qui. Forse non c'è niente di male in tutto questo, ma non c'è nemmeno niente di bene.L'unico vero vantaggio è che è divenuto a tutti ormai chiaro - anche per altre più scandalose ed evidenti storie - che questo matrimonio fra "attori" e "assessori" non s'aveva da fare. Alla Politica, così come al Mercato, la parte più viva e necessaria della cultura non serve e non interessa; così per fortuna, ancora una volta, lo spazio del gratuito, del relazionale e del vitale - se con questi aggettivi si possono sintetizzare i campi e i valori del lavoro volontario, della ricerca e del rapporto con l'altro e con la natura - sono trascurati e a disposizione di operatori "di minoranza" (come molti si sono sempre chiamati). Questi stessi aggettivi vogliono anche indicare e raccogliere quella irriducibile differenza che dovrebbe essere insita in ogni intervento culturale: una parte che si può certo utilizzare e commercializzare, ma non completamente metabolizzare come merce o far evaporare come ideologia:. li lavoro culturale, perfino quello dei tempi di Bianciardi, ha un senso solo se difende e sviluppa la sua autonomia; autonomia che significa tutto il contrario dell'isolamento, ma che vive di rapporti stretti ovvero di confronti intensi con ogni sorta di fenomeno o di moda o di consumo, per quanto massificato· e omologante o "imperante" possa risultare; autonomia che però si esprime esclusivamente e continuamente nell'esercizio della critica. Del resto, è la formazione del senso critico l'unico obiettivo che qualifica e in fondo giustifica la presenza (e la spesa) dell'operatore culturale. E, dato che si vuol chiamare così, il suo compito è criticare cosa? Lacriticaalla Politica è il primo compito di chi si assegna un ruolo o fa un mestiere "culturale". Lo è da sempre, appunto nella nostra cultura e nel nostro mondo. Al di là delle eterne dicotomie tra alta e bassa, scolastica e antropologica, massmediologica e relazionale, ci si può comunque rifare ad una definizione unitaria della cultura, una definizione antica ma non arcaica, generale ma non generica: la cultura come insieme di usi e costumi di un popolo. Quei costumi che in latino si chiamavano "mores", mentre in greco costume si dice "ethos"; inutile ricordare che da ethos viene Etica e da mores deriva Morale. La Morale è da sempre la critica della Politica, anche se (e proprio perché) la storia ha spesso visto e lungamente sofferto le prove contrarie di questo assunto. Anche nel piccolo delle inoffensive e volonterose mezzefigure si può scegliere: o il ruolo funzionale e integrato che, a sua insaputa e per inerzia, è la caricatura e il su1Togato dell'intellettuale "organico" (nella sua nuova versione laica, tecnica o terapeutica), o un'identità che si fondi sulla separa_zione tra cultura e politica e che re-inventi l'immagine e la competenza di un piccolo operatore "morale". E per favore, non confondiamo i principi e gli obiettivi della moralità con quelli dell'intervento culturale. Qui le "mani pulite" non c'entrano. C'entra semmai la "mente libera", che è un obiettivo moralmente più alto ed è l'obiettivo culturale per eccellenza. 17

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