rietà, per riprendere i termini usati da Luigi Manconi. Alle spalle, l'evento politico più importante, ossia la crisi della sinistra, la perdita di peso sociale e culturale specialmente nelle giovani generazioni. Tra la sconfitta dei movimenti alla fine degli anni Settanta e il crollo del socialismo scorre un decennio esatto. Lungo il quale la progressiva demolizione dei valori comuni, delle certezze teoriche e delle prospettive sociali scava il solco di una sconfitta campale, non solo politica, non solo "di classe". In questo senso 1'89 del trionfo dell'Occidente e del mercato capitalistico non arriva inaspettato, e però rivela la debolezza delle risposte, mostra l'incapacità di elaborare una ormai lunga sconfitta, di superare il fallimento dei modelli teorici e politici tradizionali della sinistra in tutte le sue componenti. Il risultato è una desolante, speculare divaricazione tra una sinistra ormai incerta della propria identità e insicura dei propri valori, e una sinistra che sulla propria identità appare invece totalmente ripiegata. In fondo la cultura giovanile degli anni Sessanta, tra fasti neocapitalistici e ostilità della sinistra storica, si era trovata di fronte una situazione simile. E la deriva ideologica prevalsa dopo i I '68 può forse essere spiegata con questa mancanza di riferimenti, con l'incapacità di riconoscere spazi e prospettive davvero alternative. È possibile che le culture giovanili dei nostri anni, con tutta la loro radicalità e novità, siano destinate e ripercorrere la stessa sequenza rifiuto-protesta-ideologizzazione-sconfitta? Una differenza fondamentale va però almeno accennata. A determinare il clima generale degli anni Ottanta è stata una pervasiva sensazione di chiusura del futuro (No future) che ha assunto tratti disperati o euforicamente nichilistici ma che comunque contrasta nettamente con le grandi speranze di venti anni prima. Un clima su cui ha pesato la crisi ecologica esplosa negli anni intorno a Chernobyl, ma anche un processo più ampio di logoramento del principale mito della modernità, quello del progresso. Gran parte delle espressioni culturali, soprattutto giovanili, di questi anni sono marcate da questa bancarotta delle speranze e dal diffondersi di paure epocali. Ma nonostante questa radicale discontinuità, se si guarda per esempio ai segnali provenienti dalla galassia dei centri sociali, la possibilità che queste esperienze ripercorrano un tragitto già noto appare reale. Soprattutto dove sembra riproporsi un errore decisivo delle culture giovanili e di opposizione italiane degli ultimi decenni. Le potenzialità creative e inventive, le disponibilità a cercare e sperimentare forme nuove, la stessa felicemente disomogenea massa di tensioni, desideri, progetti e insoddisfazioni tendono infatti a essere riassunte sotto una cifra ideologica, a finire ricondotte entro la cornice rappresentata dal riferimento a una logora tradizione politica. L'irriducibilità a quella tradizione delle motivazioni profonde proprie delle culture e delle ribellioni giovanili è apparsa evidente in quasi tutti i paesi occidentali (e ovviamente in tutti quelli est-europei); e proprio per questo in quelle situazioni si sono affermate dimensioni autenticamente controculturali assenti invece in Italia. Il primo rischio che sta di fronte alle culture giovanili oggi è il riproporsi di una egemonia del politico, in particolare della sua dimensione banalmente ideologica. È un rischio che riguarda tutta la parte della società che ha subito lo sviluppo senza giustizia e senza morale dell'opulenta Italia postmoderna e ora paga la crisi economica e morale di quel modello. Ma minaccia in particolare le generazioni più giovani, relativamente prive della memoria storica dei disastri politici e umani provocati dalle ideologie. 12 li secondo pericolo ha a che fare col nodo cruciale dell' affermazione dell'identità. Proprio perché l'identità giovanile appare così sfumata e sostanzialmente indecifrabile, compare la tendenza a forzarla. O meglio, provando anche qui ad allargare il discorso, proprio perché è difficile elaborare una cultura di opposizione e di contestazione intransigente dei valori dominanti, si fa strada la tentazione a risolverla nella pura affermazione di una identità intransigente, radicale, ribelle. È un fenomeno vitale e forse un passaggio obbligato. Ma che per certi versi appare paradossalmente coerente con gli impulsi collettivi, ormai più diffusi nella nostra società, alla disgregazione particolaristica, all'enfasi sul motivo dell'identità piuttosto che su quelli della tolleranza, della convivenza, della comunità. Anche per le culture giovanili, la minaccia principale oggi non è quella dell'omologazione, della cancellazione o del riassorbi mento. In questo, gli anni Novanta sono molto diversi dagli anni Ottanta. Frantumatosi, nel modo osceno che le cronache ci raccontano, quel modello politico-sociale, prevalgono le radicalizzazioni, le esasperazioni, le rivendicazioni di spazi e diritti particolari. Dentro la disgregazione del tessuto sociale, si aprono quelle che un gergo neomovimentista chiama "zone temporaneamente liberate", gli spazi preziosi per esperienze di autonomia, di sperimentazione e di socializzazione. Luoghi di confronto e crescita, da difendere anche quando appaiono concentrati su se stessi e chiusi all'esterno. Ma con la consapevolezza che in questa fine di secolo è davvero di opposizione, è davvero antagonista ai propri tempi una cultura che accanto al problema della propria identità pone quelli della comunicazione e della solidarietà. Altre esperienze provenienti dagli anni Ottanta possono aiutare questo processo. Perché quelli sono stati anni di minoranze, di piccole e meno piccole dissidenze, di lunghe marce dentro e ai margini delle istituzioni. Anche questa realtà diffusa - la cui componente giovanile è consistente almeno per quanto riguarda il grande settore del volontariato-è oggi di fronte a un passaggio fondamentale, alla necessità di conciliare l'affermazione della propria identità con l'assunzione di responsabilità più ampie. Qui il rischio è semmai quello di rifugiarsi in una dimensione di pura testimonianza, di affermazione dei propri nobili valori: la partecipazione, la condivisione, l'impegno personale. Ma quello che negli anni Ottanta ha rappresentato un segnale decisivo di resistenza, negli anni Novanta non basta più: non c'è più una compatta cultura cui opporsi ma uno sfascio cui reagire. Questo vale per le culture giovanili, dall' hip hop al volontariato cattolico, come per chiunque si ponga il problema di salvare e cambiare questa società. I giovani di questa fine secolo vivono la consumazione delle grandi tradizioni culturali e sembrano costretti a un bricolage faticoso e a volte approssimativo che mette insieme suggestioni di diversa qualità; pagano l'impraticabilità della scuola come luogo di formazione e il dominio dell'universo mediatico e spettacolare, sempre più seducente ma sempre più povero di esperienze e conoscenze reali; vivono in modo contraddittorio la dissoluzione ma anche l'insostituibilità dell'istituzione familiare e sembrano divisi tra una vocazione cosmopolita e il richiamo delle radici - esattamente come le passe mischiano nelle loro performance inglese e dialetto. Queste incertezze e queste fratture, però, riguardano ormai l'intera società. Anche per questo se essere giovani non è mai stato facile, è molto probabile che per i (pochi) che avranno quindici o venti anni nel Duemila lo sarà ancor meno.
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