Linea d'ombra - anno XI - n. 88 - dicembre 1993

lavoro nei quartieri poveri di Philadelphia, senza badare troppo ai loro titoli accademici e alle loro precedenti esperienze psicoterapeutiche: importava che sapessero parlare il linguaggio delle famiglie nere, portoricane, messicane, italiane, cinesi, che capissero il loro lessico e le loro metafore, che non contrastassero le loro ideologie in nome di una "normalità" che avrebbe dovuto coincidere con i comportamenti e le scelte di un bianco anglosassone protestante ben educato e dotato di buona integrazione con la realtà e di personalità sintonica. Da noi, solo in alcune - poche - realtà territoriali erano presenti in quegli anni gruppi di terapeuti familiari. 4 Molti di noi, invece, venivano letteralmente espulsi dai servizi di territorio ( in modo non violento, si capisce: era sufficiente negare i permessi di formazione, se non per iniziative "ortodosse"; negare qualsiasi modificazione degli spazi che permettesse di lavorare con gruppi familiari; esigere diagnosi, relazioni, supervisioni di stretta osservanza psicodinamica, e così via) e finivano per associarsi per costituire centri privati. Dieci anni sono passati, e certo qualcosa è cambiato. Meno sospetti nei confro.nti degli interventi sistemici, maggiore presenza di gruppi di operatori con formazione ecologico-relazionalesistemica nei servizi di territorio. Soprattutto, è cresciuta la tendenza a costruire, a studiare modelli integrati, capaci di utilizzare approcci diversi in modo flessibile, ma non improvvisato. Certe contrapposizioni "di facciata" sono diventate meno rigide, hanno perso importanza. Per fortuna. In un libro uscito quest'anno, Luigi Boscolo 5 prende definitivamente a picconate il vecchio mito (già eroso, ma come ben si sa i muri bisogna abbatterli pubblicamente) del disinteresse del terapeuta sistemico per la storia, per il passato della famiglia e del paziente designato. Era un mito nato anche per mantenere ben chiara la distinzione rispetto a modelli che, appunto, riferivano tutto al passato, ma ormai sterile, inutile e improduttivo. E Salvador Minuchin 6 sceglie lo stile autobiografico per rendere esplicita tutta l'origine soggettiva, personale del suo modo di fare - di inventare - la terapia familiare: come dire, la mia scuola terapeutica è nel mio passato; nella mia storia; nella storia dei miei antenati. La teoria sistemica ha riconquistato il tempo e la storia. Un altro mito, quello della irrinunciabilità dell'intervento rivolto a tutta la famiglia, si era già eliminato da solo, distrutto dal confronto con ·1a realtà, con là reale impossibilità pratica di pretendere la presenza di intere famiglie in seduta. L'intervento familiare si è sviluppato in intervento su "parti" significative della famiglia (la coppia dei genitori, il gruppo dei fratelli; coppie genitore-figlio, madre-suocera, e così via) e anche in intervento individuale. Ma quella integrazione non avvenuta in tempi giusti, fra un modello psicodinamico mai del tutto adattato alle specificità del lavoro territoriale, e il modello sistemico che avrebbe dovuto introdurre, soprattutto nei servizi di territorio, un atteggiamento più rivolto al cambiamento e meno impostato sulla "norma" e sui criteri di normalità, ha lasciato i suoi segni. Non siamo riusciti ad evitare che il modello psicoanalitico - o peggio la sua versione più divulgativa e più semplificata - continuasse a filtrare al di fuori della sua sede naturale (la stanza di terapia, il rapporto terapeutico liberamente contrattato fra analista e cliente) e invadesse in modo non controllabile il linguaggio (e la visione del mondo) di chi psicoanalista non è, e non è richiesto di esserlo. Sistemi complessi, dotati di grande potere, si sono impadroniti di pezzi staccati del modello psicoanalitico e continuano ad usarli in modo improprio, e autoritario. Insegnanti spiano l'evolversi dell'Edipo nei loro piccoli allievi (come? Ma nei disegni, nei temi. Presto avremo dei libri stile maestro D'Orta anche su questo, vedrete!), terrorizzano i genitori con le previsioni di un futuro di deviazioni sessuali (il piccolo, orrore, si disegna sempre troppo vicino alla mamma, e il papà, lo vede come lo disegna piccolo e lontano?), esigono l'intervento dello psicoterapeuta infantile "prima che sia troppo tardi". Le teorie della personalità vengono usate per individuare una "norma", per selezionare, distinguere, valutare. Guai a chi vuole adottare un bambino e non è in grado di mostrare, ali' esperto in normalità psichica, i segni inequivocabili di un "normale" sviluppo della personalità. li ricordo di una infanzia e di una adolescenza serene e felici, ad esempio, non è una fortuna: può essere visto come il segno indubitabile di scarsa salute psichica, tendenza alla rimozione, scarso controllo dell'aggressività. Niente figlio adottivo. Così le coppie vanno ai colloqui per la selezione delle famiglie adottive come studenti poco diligenti ad un esame di maturità: chissà cosa mi chiederanno; speriamo di rispondere giusto. Devo dirlo o non dirlo, che preferirei una femminuccia? L'altro effetto perverso di questo dilagare della logica pseudo-psicoanalitica è il determinismo che impregna i ragionamenti di esperti e sedicenti tali, autorizzandoli a riempire quotidiani e settimanali di riflessioni, spiegazioni e previsioni su tutto: perché un ragazzo ammazza a padellate i suoi genitori, perché un altro infilza bambini e ragazzini, perché gli stupratori stuprano, i truffatori truffano, i suicidi si suicidano ... ; cosa accade se una madre nubile adotta un bambino, se si fanno figli a cinquant'anni, se si rimproverano troppo i figli, se non si rimproverano abbastanza. È il sogno - pericoloso - del controllo totale: tutto si può spiegare, tutto si può prevedere. Lasciateci lavorare per voi ... Credo che la caratteristica più profonda, più significativa e più importante dell'impostazione sistemica, così come è nata e si è sviluppata, stia proprio nel rifiuto dell'illusione- rassicurante, ma sempre potenzialmente aggressiva-di sapere il "perché" dei fatti, delle scelte, dei comportamenti. Nel rifiuto della certezzache è sempre di stampo autoritario - di saper prevedere cosa succederà dopo, in conseguenza di (e quindi, di essere autorizzati a prevenirlo, se non ci piace?). Nel vedere il lavoro terapeutico come un'interazione (con), più che un intervento (su) per ripristinare una normai ità predefinita. Un "processo" che ci rifiutiamo di dirigere, e scegliamo invece, come diceva Carlos Slutzki, di navigare: senza fidarsi troppo di mappe disegnate da altri; con spirito d'avventura e con rispetto per chi naviga con noi. O, per citare Bateson, con rigore e con immaginazione. Questo, credo, è il senso di questi dieci anni. Note I) L. Cancrini, Guida alla psicoterapia, Editori Riuniti 1982. 2) S. Cirillo, Il cambiamento nei comesti non terapeutici, La Nuova Italia Scientifica 1986. 3) M. Malagoli Togliatti, L. Rochetta Tafani, Famiglie multiproblematiche, La Nuova Italia Scientifica 1987. 4) A. Covini, E. Fiocchi, R. Pasquino, M. Sei vini, Alla conquista del territorio, La Nuova Italia Scientifica 1988. M. Tognetti Bordogna (a cura di),/ muri cadono adagio, Angeli 1985. M. Malagoli Togliatti, U. Telfener (a cura di), Dall'individuo al sistema, Bollati Boringhieri 1991. 5) L. Boscolo, P. Bertrando, / tempi del tempo, Bollati Boringhieri 1993. 6) S. Minuchin, M.P. Nichols, Quando lafamiglia guarisce, Rizzali 1993. 97

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