DICEMBRE1993 - NUMERO88 LIRE10.000 i storie, immagini, discussioni e spettacolo • I
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1948. Nasce Totip. 900 miliardi di vincite. 60.000 milionari. Anno dopo anno. TOTIP. Dal 1948 al lavoroper l'ippicaitaliana.
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Gruppo redazio11ale: Alfonso Berardinelli, Gianfranco Benin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lerner, Luigi Manconi, Samina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. Collaboratori: Damiano D. Abeni, Adelina Aielli, Chiara Allegra, Enrico Alleva, Livia Apa, Guido Armellini, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Maueo Bellinelli, Stefano Benni, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Paolo Beni netti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio, Marilla Boffito, Giacomo Borella, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Silvia Calamandrei, Isabella Camera d' Afflillo, Gianni Canova, Marisa Caramella, Rocco Carbone, Caterina Carpinato, Bruno Canosio, Cesare Cases, Alberto Cavaglion, Roberto Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Vincenzo Coninelli, Alberto Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Delconte, Roberto Delera, Stefano De Malleis, Piera Detassis, Vittorio Dini, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Edoardo Esposito, Saverio Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto Franco, Guido Franzinetti, Giancarlo Gaeta, Alberto Gallas, Nicola Gallerano, Fabio Gambaro, Roberto Gatti, Filippo Gentiloni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti Serra, Giovanni Jervis, Roberto Koch, Filippo La Porta, Stefano Levi della Torre, Mimmo Lombezzi, Marcello Lorrai, Maria Maderna, Maria Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari, Edoarda Masi, Roberta Mazzanti, Roberto Menin, Paolo Mereghelli, Diego Mormorio, Maria Nadotti, Antonello Negri, Grazia Neri, Marco Nifantani, Luisa Orelli, Maria Teresa Orsi, Pia Pera, Silvio Perrella, Cesare Pianciola, Guido Pigni, Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Pietro Polito, Giuliano Pontara, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Dario Puccini, Fabrizia Ramondino, Michele Ranchelli, Marco Restelli, Marco Revelli, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Roberto Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scarnecchia, Domenico Scarpa, Maria Schiavo, Franco Serra, Francesco Sisci, Joaqufn Sokolowicz, Piero Spi la, Paola Splendore, Antonella Tarpino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni Turchetta, Federico Varese, Bruno Ventavoli, Emanuele Vinassa de Regny, Tullio Vinay, Itala Vivan, Gianni Volpi. Progerto grafico: Andrea Rauch/Graphiti Ricerche redazionali: Natalia Delconte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re A111ministrazio11e: Patrizia Brogi Han110contribuito alla preparazione di questo numero: Giovanna Busacca, Lionello Cerri, Alessandra Dragone, Barbara Galla, Lieselolle Longato, Enrica Melossi, Michele Neri, Gianni Romano, Marco Antonio Sannella, Barbara Verduci, l'agenzia fotografica Contrasto (Roma) per le foto di Baldelli, Gerbasi, Koch, Paone, Paoni, Pesaresi, SiIva, Siragusa e Titolo, l'agenzia fotografica Grazia Neri (Milano) per le foto di Gin Angri, Biasiucci, Fracchia, Magurno, Musella, Rotole1tie Vitale. Editore: Linea d'ombra Edizioni srl - Via Gaffurio 4 20124 Milano Tel.02/6691132. Fax: 6691299 Distrib. edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Tel. 02/8467545-8464950 Distrib. librerie POE- Viale Manfredo Fanti 91, 50137 Firenze - Te!. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Rossini 30 Trezzano SIN - Tel. 02/48403085 UNIA D'OMBRA anno Xl dicembre1993 numero 88 ITALIA '83-'93 - LA CULTURADI UN DECENNIO Consuntivi: Goffredo Fofi, Un modo di fare (p. 6); Stefano Senni, La generazione perduta (p. 9); Marino Sinibaldi, Giovani e no (p. l 0). Il "lavoro culturale": Piergiorgio Giacchè, Invenzione, diffusione e agonia dell'operatore culturale (p. 13). La scuola: GuidoAnnellini, li mestiere dell'insegnante. Sette tesi per gli anni Novanta (p. 18). La critica della cultura: Alfonso Berardinelli, C'era una volta la critica della cultura (p. 22). La critica letteraria: Franco Brioschi, Notizie dalla crisi (p. 28), Giulio Ferroni, Qualcosa di "postumo" (p. 30). Le pagine culturali: Antonella Fiori, La marmellata no (p. 32), Andrea Casalegno, Di malavoglia (p. 33). I giornali: Oreste Pivetta, La paura di sentirsi diversi (p. 34). La televisione: Gianni Canova, Nulla da vedere (p. 37). L'editoria: Paolo Soraci, Storie esemplari di piccoli e di grandi (p. 39); Emilia Lodigiani, Nascere in tempi difficili (p. 42); Sandro Ferri, Piccolo è bello (p. 42); Paolo Repetti, Anticorpi (p. 43). La cultura di sinistra: Marcello Flores, La "questione comunista" (p. 44). La storiografia: Nicola Gal/erano, Storie d'Italia (p. 46). La satira: Saverio Esposito, Una grande famiglia (p. 50); Vincino, Anni ipocriti (p. 52). La letteratura: Mario Barenghi, Romanzi vecchi e nuovi (p. 54); Marisa Su/gheroni, Sguardi visionari (p. 58); Filippo La Porta, Specchi e messinscene (p.59); Alessandro Baricco, Il contesto, deprecabile (p. 56); Sandro Veronesi, La letteratura a piedi (p. 62); Sandra Petrignani, Un'assenza di suono (p. 62). La poesia: Alfonso Berardinelli, Confini da spostare (p. 64). Il cinema: Paolo Mereghetti, Contro lo squallore medio (p. 66); Francesca Archibugi, L'ultimo motorino (p. 69). Il teatro: Renata Molinari, Le parole dalla solitudine (p. 72); Mario Martone, Teatri Uniti (p. 75). Il video: Paolo Rosa, Necessità della poesia (p. 76). La pittura: Emilio Tadini, La metafora del profugo (p. 78). La fotografia: DiegoMormorio, Quantità o qualità (p. 80);Antonio Biasiucci, Fotografia totale (p. 82); Roberto Koch, Scuola italiana (p. 82). Il fumetto: Giancarlo Ascari, Ah, Dylan Dog! (p. 84); Lorenza Mattotti', Esilio (p. 86). La musica: Marcello Lorrai, Non solo canzonette (p. 88); Peppe Aiello, Cantanapoli (p. 90). Medicina e psichiatria: Giorgio Bert, Una sfida del nostro tempo (p. 91 ); Paolo Crepet, Dov'è andata la psichiatria? (p. 92); Silvana Quadrino, Terapie familiari (p. 94). Il dibattito religioso: Mario Cuminetti, Lari vincita di Dio (p. 99); Pier Cesare Bori, In cerca di sintesi (p. I 03); Filippo Gentiloni, Un muro abbattuto (p. 103). POESIA Fernando Bandini (p. 20), Milo De Angelis (p. 29), Patrizia Cavalli (p. 33), Bianca Tarozzi (p. 47), Giovanni Giudici (p. 65), Nicola Miglino (p. 77), Piera Oppezza (p. 80), Giorgio Manacorda (p. 86), Andrea Zanzollo (p. I 04). FOTOGRAFIA Fulvio Magurno (alle pagine 7 in alto, 11, 19, 4 I in alto, 61 in alto, 63 in basso, 8 I in alto, 83 in alto, IOI inalto),AnionioBiasiucci(allepagine7 in basso,45,47 in alto, 63 in alto),Marco Pesaresi (alle pagine 15 in alto, 21, 81 in basso), Eligio Paoni (alle pagine 15 in basso, 41 in basso, 57 in basso), Armando Rotoletti (alla pagina 31 in alto), Paolo Titolo (alla pagina 3 I in basso), Gin Angri (alla pagina 35 in basso), Roberto Koch (alle pagine 35 in alto, 53 in alto, 95 in alto, IO I in basso, I05 in basso), Massimo Siragusa (alla pagina 49 in alto), Silva (alle pagine 49 in basso, 67), Carlo Paone (alle pagine 53 in basso, 73 in basso, 95 in basso), Luca Musella (alla pagina 61 in basso), Giuseppe Gerbasi (alla pagina 73 in alto), Luigi Balde/li (alla pagina 79), Claudio Vitale (alle pagine 83 in basso, 87), Dino Fracchia (alla pagina 105 in alto). La copertina: Lorenzo Mattoui. LINEA D'OMBRA Abbonamento annuale: ITALIA L. 85.000, ESTERO L. 100.000 a mezzo assegno bancario o lscrilla al tribunale di Milano in data I8.5.87 al n. 393. c/c postale n. 54 I40207 intestato a Linea d'ombra. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped.Abb. Posi.Gruppo IJJ/70%-Numero88- Lire I0.000 / manoscrilli non ve11gonorestituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei testi di cui non siamo in grado di rintracciare gli aventi dirillo, ci dichiariamo pronti a ottemperare agli obblighi relativi.
"RICONOSCENDO L ORME DICHIClHAPRECEDUTO SIVAVANT
FINCHÉ SISCORGE INNANZI ANOIUNA Perquesto tichiedeiabbonarti. Perché 1 • 1
'83/'93 • CONSUNTIVI --~~------~-~--~~---------~---~-~~---' UN MODO DI FARE (TRABONACCIA ETEMPESTA) Goffredo Fofi Uno storico del futuro potrà divertirsi molto a vedere la capacità di previsione, l'intelligenza dell'epoca che hanno avuto i nostri intellettuali, giornalisti e politici nel corso degli anni Ottanta. Pensatori deboli, post-moderni e neo-cyber, blobbisti e vetero-catto-cornunisti, sociologi e storici, censisti e stilisti, darnsiani e bocconiani, post-terroristi e neo-profumieri, cornici e predicatori tv si unirono, dopo la congiunta sconfitta del terrorismo e vittoria del Psi, in un unico coro - la fine della storia, la perennità di un sistema pacificato e a-conflittuale e la bella ricchezza italica - e discettando di privato, di sentimenti, di gusto (ah, i dibattiti al festival dell'"Unità" sui pedalini lunghi o corti! e la diffusione galante delle alberonate! e l'edonismo reaganiano con i suoi imprevedibili, sorridenti, immemori adepti!). Insoddisfatti per scelta, curiosi per vocazione, in pochi si è cercato altro. E, in pochi, ci si è incontrati in pochi luoghi, uno dei quali è stato questa rivista. Ci si distingueva con poco sforzo dall'allegra massa dei soddisfatti; ma ci furono momenti in cui venne da sospettare anche a noi, tanto alto e numeroso e vario era il coro degli osanna che circondavano per esempio, anche tra gli amici e i vicini, il trionfo socialista (anche qui, quanti non ci caddero e non celebrarono?), di essere per davvero entrati in un'epoca morta, in una fissità da status quo che disuniva definitivamente i Nord e i Sud e accettava un ordine mondiale aberrante, di muri e disparità perenni. Ci salvò la nostra insoddisfazione, la nostra curiosità. Riguardava, la prima, questo rosa bailamme di convertiti, ma anche, e con diffidenza non minore, gli ultimi arroccati difensori (anche loro per lo status quo!) di un modello politico che la storia stava per sconfiggere sacrosantamente, di un modello fallito e che resisteva col nome di ciò che aveva sin dall'inizio negato, massacrato. Riguardava, la seconda, il vero sommerso (non quello stravistoso "scoperto" e teorizzato da De Rita, il peggiore tra gli ideologi e fabbricatori di alibi del decennio): una società che nascondeva ancora il suo disagio, bensì covandoselo, coi suoi margini, le sue pieghe, i suoi drogati, le sue piaghe, i suoi suicidi, i suoi abbandoni. Non era difficile scoprirla o entrarci in contatto, bastava girare un po' per il paese, frequentare quei vecchi o nuovi amici (a volte, non di rado, lettori) che "nel sociale" intervenivano per professione e per scelta, perché era il loro lavoro o perché volevano lo diventasse, nel loro tempo libero dal lavoro. Si scoprivano così molte cose non ovvie: per esempio che il '68 continuava ad agire solo in un'area di cattolici dissidenti nei fatti anche quando quieti nelle affermazioni; che i politici, grandi e piccini, partecipavano tutti in vario modo del banchetto o lo accettavano, patteggiavano; che i giovani erano assai stupidi i più (come gli adulti) ma spesso molto più inquieti e scontenti di quanto non li volesse l'estetica dei wendersiani italiani, variamente minimalista, intimista, privatistica. E poi si scopriva, 6 allargando lo sguardo, che altrpve la storia non stava certo ferma e che contraddizioni enormi ribollivano o anche esplodevano, che interi continenti erano allo sbando o all'abbandono o invece attivi in modo dirompente, produttivi di un nuovo tanto discutibile quanto intrigante, che esigeva analisi, che chiedeva confronto. Nella difficoltà di reperire il nuovo in Italia, l'opposizione in Italia, scegliemmo da subito altre strade, aggiranti, non evasive e sotto tanti aspetti entusiasmanti. Scegliemmo di cercare e tradurre autori che davvero fossero nuovi, dal Sud e dal Nord, dall'Est e dall'Ovest del mondo. Scegliemmo di essere una rivista internazionale e italiana; saldamente aperta al meglio nella cultura del mondo, alla scoperta di simili e amici nel mondo proprio in quanto fortemente radicata nel contesto italiano. Scegliemmo di essere una rivista di confine: tra le nazioni, le regioni, i generi, le generazioni, le discipline e le idee che ci parevano vive, accettabili, utili a comprendere il nuovo e però anche a intervenirvi secondo valori e modelli più eterni che antichi. (Fummo aiutati da tanti. I nomi? Almeno quelli di due amici che nel frattempo ci hanno lasciati, due "fratelli maggiori" la cui determinazione morale e la cui lucidità furono per noi indispensabili: Romano Bilenchi e Elsa Morante. Ma poi cento altri, vecchi e giovani, dal Nord e dal Sud, dalle capitali e dalle province; senza contare i lettori, magari pochi ma ottimi, che ci hanno pungolato e "protetto".) Con fatica, verificando ancora una volta la giustezza del contare sulle proprie forze, siamo arrivati al traguardo dei dieci anni degnamente, crediamo, e proficuamente per la cultura del nostro paese. Avendo contributo a svecchiarla, ad aprirla, a provocarla, a criticarla, e quando necessario a negarla. Tenendo in scarsissimo conto firme famose e "importanti", poteri ufficiali e privati; e sfuggendo del tutto (anche perché la nostra linea automaticamente allontanava i possibili "corruttori") alla logica dell'assistenzialismo pubblico e a quella delle sponsorizzazioni private. Di questo siamo, ovviamente, fieri; anche di fronte ad altre iniziative e testate. Siamo diventati così, volenti ma anche senza calcolo, un punto di riferimento per nuovi autori, nuovi lettori; abbian10 favorito scambi e conoscenze; abbiamo "lanciato" spesso da soli (abbiamo proposto molto spesso noi per primi, in Italia) i grandi nomi della cultura internazionale di questi anni. E quando i muri sono caduti, noi eravamo preparati; l'avevamo previsto; avevamo contribuito nel nostro piccolo a farli cadere nel mentre che contribuivamo a innalzare quelli giusti nei confronti delle volgarità e delle complicità che dilagavano. Impressiona noi stessi, oggi, vedere come, di numero in numero, si r/uscisse così spesso a prevedere e annunciare grandi trasformazioni in grandi aree del mondo, le antenne pronte a recepire perché ben piantate su un terreno saldamente morale, e grazie a collaboratori competenti e partecipi. Il nuovo che ha messo a soqquadro la nostra classe dirigente
- di destra di centro di sinistra - ci ha invece in buona parte sorpreso; forse perché troppo vicini e troppo sdegnati. Esso ha effettivamente trasformato molte cose; ma per ora assai poche nel campo dei media, mentre in quello della cultura ha offerto la possibilità ai nostri grandi e piccoli intellettuali e artisti di "far finta" di nuovo, e di riesibirsi nel vecchio numero del trasformismo fidando nella scarsa memoria di lettori e spettatori (un popolo) altrettanto complici, e di maestri dell'informazione che hanno per scopo il logorio straveloce della notizia, un tutto che dev' esser tutto da dimenticare al più presto. Finora avevamo fatto nostro il motto aureo, non curandoci di loro; ma trovarseli oggi ancora lì, tutti quanti, belli in fila, moralizzatori degli altri, gridanti e sgridanti, nel gran pettegolume, nel gran pattume di una stampa che serve il Sistema, il Capitale, Se Stessa e di una televisione che fa troppo comodo ai troppi così com'è perché si possa sperare che venga modificata da qualche professore peraltro non proprio al di sopra delle parti; trovarseli davanti come se nulla fosse stato, riverniciata di presunto nuovo la vecchia carcassa, non è piacevole e dà l'idea che sempre si debba ricominciare daccapo nell'avversarli, come fossero una biblica condanna, una bunueliana ripetizione, un incubo immortale. E allora no, bisogna fare qualcosa, bisogna occuparsi di più anche di loro. Senza nulla abbandonare delle posizioni, dei contatti, delle aperture, delle libertà che ci siamo conquistati con la capacità di comprensione e scoperta sul piano internazionale, ci si preoccuperà anche di metterci a disposizione del meglio che si muove pure da noi. Da sotto o di lato o anche da dentro; da tutti gli ambiti sociali dove persone serie agiscono, persuase della indispensabile solidarietà, in nome di princìpi e valori éhe condividiamo, in azion·icui vogliamo partecipare e far partecipare; da tutti i campi dell'espressione artistica e culturale, dove forze nuove o i pochi "vecchi" degni rimasti realizzano opere di valore, significative, e soprattutto belle - nella convinzione di sempre che tra bello e giusto e tra bello e vero vi sia e debba esservi un rapporto inscindibile. Ancora una volta si tratterà di considerare innanzitutto le minoranze; e gli individui; e grazie alla rivista e alle sue scelte, proporre scambio indiretto (ma forse anche diretto) a chi lo cerca, suggerendo gruppo (area e non corporazione, mai corporazione, mai familismo amorale) a chi non l'ha. Gruppo aperto, posizioni aperte - entro una ben chiara tavola d'intenti. Si continuerà insomma a privilegiare quella parte, entro cui ci collochiamo, di "piccola borghesia intellettuale" fortemente morale e radicale, e tuttavia disponibile al dialogo con chi ben fa, alla curiosità per i diversi da noi che lottano per cose vicine a quelle per cui noi lottiamo - anche se a partire da esigenze, credi e dottrine diversi dai nostri. Dal mito del capitalismo organizzato alla realtà esplosiva e difficile del capitalismo disorganizzato; da unità fasulle a unità da verificare e conquistare, o ri-conquistare; e dal mito del partito che rappresenta, concentra, dirige, a una pluralità di posizioni che convergono in programmi per tanti e cui tanti possano in tanti modi concorrere; dal narcisismo di massa (esaltato e diffuso dal conformismo degli anni Ottanta) a un sano approccio individuale, a una ricerca di gruppo che non sacrifichi le istanze del singolo, ma nel gruppo e nelle sue attività e nei suoi scambi le potenzii; dalla supinità verso le mille pubblicità alla critica del pericolo pubblicitario, da qualsiasi parte provenga, anche da chi più si presenta come sinistra. Dopo il monopolio, la televisione ha visto una fase di caotico oligopolio e poi si è ridimensionata su un duopolio tanto rigido, ora, quanto osceno. Ma in generale tra mercato e stato ci si vuol 8 far scegliere in assoluto il mercato. E noi invece, anche sul piano della cultura, queste scelte non convincono. Che lo stato assistenziale vada ridiscusso è un fatto assodato, visto quel che ha prodotto, con il determinante concorso della sinistra (e quanti della sinistra si sono avvalsi della protezione della sinistra a fini privati è ancora cosa da studiare e denunciare, perché ritorna, ritorna). Ma non è affatto assodato che lo stato non debba occuparsi di chi meno ha, categorie, regioni, singoli; e non debba "proteggere le arti" e favorirne tanto l'espressione quanto il godimento. L'annoso problema è allora quello del funzionariato che ha gestito, gestisce, gestirà lo stato; è questo il punto dolente di tutto il nostro sistema istituzionale. Anche nel campo delle arti, della cultura. E qu~nto a corruzione, è bene non dimenticare quella dell' istituzione universitaria, "mafiosa" nella sua logica interna, semplicemente scandalosa agli occhi di chi ne sta fuori; e quanto a complicità è bene non dimenticare quella della categoria più diffusa e massiccia di intellettuali che il nostro paese conosca, gli insegnanti di ogni ordine di scuola. Anche di questo noi intendiamo occuparci, a costo di rovinare il sonno di molti, contenti anzi se riusciremo a rovinarlo. Infine, nel nostro cahier di buoni propositi, appare fondamentale quello di riaffrontare con passione selettiva il campo dello spettacolo, della musica. E di aprirci al contributo e alla scoperta di realtà regionali, locali, che il "grande sistema dei media" trascura, fissò sui nomi affenpati, chiuso in rigidi clan. (Un esempio? In uno dei prossimi numeri di "Linea d'ombra" proporremo un "dossier Sicilia" -di nuovi narratori, fotografi, teatranti e autori di video eccetera.) Se negli anni Ottanta, insomma, abbiamo potuto permetterci, almeno fino ali' 89, un certo rilassato star da parte paghi di un paziente lavoro di minoranza; oggi, come minoranza, dobbiamo assumerci responsabilità molto più grandi almeno nei settori in cui questa rivista opera, tuttavia agendo da minoranza, poiché ben sappiamo che la minoranza è un valore in sé; e in quelli a questa rivista affini o vicini, che vedono la partecipazione di molti di noi, o dei nostri collaboratori più cari (per esempio, rafforzando il legame con altre riviste che hanno basi comuni, in una opportuna divisione dei compiti). Siamo del tutto persuasi dei nostri doveri, ma sappiamo di dover assumerci compiti che siamo in grado di sostenere solo a una prima e fondamentale condizione: il sostegno e l'aiuto dei nostri lettori. Ai quali non riteniamo di dover altro che il massimo rispetto per le convinzioni che dichiariamo, per i nostri propositi. Chiudiamo il decimo anno di vita di "Linea d'ombra" con un numero riassuntivo, non celebrativo. Abbiamo chiesto a redattori e collaboratori interventi di sintesi, la loro lettura di un attraversamento collettivo, ma dal punto di vista di una competenza, di una scienza, di un'arte, di una passione. A questi articoli abbiamo voluto aggiungere alcune brevi testimonianze. Avremmo voluto proporne di più, ma l'idea del numero ci è venuta troppo tardi, e non tutti sono stati puntuali nel rispondere. Ci auguriamo che questo fascicolo così com'è, con i suoi vuoti e le sue mancanze, sia tuttavia rappresentativo e significativo, riaffermando una diversità d'approccio. Il decennio si è concluso per noi dolorosamente con la scomparsa di alcuni amici e collaboratori: Federico Fellini, Ludovica Koch e Antonio Neiwiller. Li ricorderemo nel numero di gennaio. Alla nostra rivista e a tutti i nostri lettori e amici e, con loro, al nostro travagliato paese e al nostro travagliato pianeta: buon 1994-2004!
CARTA CANTA LAGENERAZIONEPERDUTA Stefano Benni Finalmente abbi.amo una nuova generazione perduta. Dopo i sessantottini, gli ottantini. Con questo nome indicheremo quel vasto movimento di intellettuali, giornalisti e portaborse che negli anni Ottanta aderì entusiasticamente al craxismo-rampantismo, al made in Italy e all'estremismo manageriale. Bruscamente risvegliati dai giudici, gli ottantini hanno visto crollare i loro sogni, scoprendo di aver vissuto non già una stagione dorata del nostro paese, ma un regime di delinquenti. Se il pentimento dei sessantottini è stato parziale, quello degli ottantini è stato massiccio: da un momento all'altro si sono scagliati a condannare e insultare proprio coloro che, fino a poco tempo prima, avevano sostenuto e blandito. Mai, nella storia patria, ci fu esempio di trasformismo più sollecito, di gaia cancellazione di ciò che era stato detto e scritto, di astuto riciclaggio. Pubblichiamo quindi, per dovere storico, alcuni esempi di trasformazione ottantina: cioè quello che gli ottantini scrivevano una volta e che gli stessi scrivono ora. Potete riconoscerci chi volete, dal più oscuro cronista di giudiziaria al sociologo insigne, da Bocca a Feltri e Mieli. A noi fa piacere constatare che ora la verità brilla, e che dopo i sessantottini c'è un'altra generazione che ha sbagliato tutto. E in più fa anche finta di niente. Giulio I Da questo numero inizia la collaborazione alla nostra rivista l'onorevole Giulio Andreotti. Sarà l'occasione per conoscere un uomo che unisce all'acume politico una non comune arguzia e comunicativa, dati che lo hanno portato al successo come autore di libri deliziosamente intelligenti quali Visti da vicino. L'onorevole Andreotti commenterà dall'interno i fatti di politica italiana e internazionale, avviando un dialogo democratico con i lettori che ci onoreremo ospitare a lungo. Giulio II Da questo numero iniziamo a pubblicare sul nostro giornale il dossier a puntate "Andreotti: gli anni della lupara". Sarà l'occasione per conoscere un uomo che, sotto la copertura di un'apparente arguzia e comunicativa, ha perversamente tessuto le trame mafiose che hanno insanguinato il nostro paese. Mentre costui teneva una rubrica su un giornale da me diretto (rubrica durata peraltro solopochi anni eda cui è statolicenziatosenza liquidazione) si guardava bene dal mettere nel suo stupidissimo Visti da vicino i Riina e i Bontade che costituivano la sua quotidiana e fosca compagnia. Con questo dossier il nostro giornale vuole dare iln contributo alla ricerca della verità che uomini come Andreotti, uomini da noi sempre combattuti, hanno cercato di soffocare. Craximanagerialismo I Le anime belle della sinistra italiana ce l'hanno con Craxi perché non è fumoso, non si nasconde, va diritto al cuore dei problemi e rompe con anni di politica degli equilibri e degli accordi sottobanco. Se vuole ottenere una cosa la ottiene, piaccia o no ai minoritari a vita, alle Rossande e agli Ingrai. Con lui sta crescendo e prendendo fiducia una generazione di manager che tutto il mondo ci invidia, che ha fatto dell'Italia un paese rispettato nell'industria nella moda e nella vela, che ci ha ridato il gusto della competizione e dell'imprenditorialità vivace e spregiudicata. Non è per piaggeria che siamo al fianco dell'onorevole Craxi e dei finanzieri italiani nel momento in cui una campagna calunniosa e suicida tenta di screditare quel poco di chiaro, di moderno e di economicamente solido che c'è nel nostro paese. Craximanagerialismo II Le anime belle della sinistra italiana ce l'hanno con Di Pietro perché non è fumoso, non si nasconde, va diritto al cuore dell'inchiesta e rompe con anni di politica craxiana della truffa e del sotterfugio. Se vuole ottenere una cosa la ottiene, piaccia o no ai garantisti pietisti, alle Rossande e agli lngrai. Con lui la giustizia italiana fa piazza pulita di un uomo politico nefasto quale Craxi, e di una classe finanziaria che ci hafatto perdere la stima del mondo e lafiducia dei mercati, coi suoi salotti di stilisti fighetti e i suoi dilapidatori con spinnaker, una autentica gang di parassiti che ha dissipato i soldi dei lavoratori del Nord. Non è per piaggeria che siamo alfianco del giudice Di Pietro nel momento in cui una campagna calunniosa e suicida vuole screditare chi ci sta liberando da ciò che di corrotto, incivile e moralmente guasto c'è nel nostro paese, e che noi abbiamo sempre combattuto. Ciarrapico I Posso dire di onorarmi da tempo dell'amicizia col dottor Ciarrapico, e che questa intervista mi è stata concessa nella deliziosa cornice della Casina Valadier, ristorante da lui portato nell'Olimpo della gastronomia europea. Qua, tra un bicchiere della sua diuretica Fiuggi e la spiritosa compagnia di due attrici di sicuro talento quali Belinda Cartucci e Zita Rolandis (che presto vedremo sui nostri schermi nel delizioso film Yuppies in love) io e Ciarrapico abbiamo parlato di tutto: del buon momento della Roma calcio, delle invidie che circondano questo uomo semplice e senza pose, che nella sua bonaria saggezza amministra un impero efficiente in tutti i campi, alla faccia di chi crede che in Italia non esistano veri uomini d'affari. Ciarrapico Il Non avevo mai incontrato Ciarrapico. Quando il direttore mi ordinò di intervistarlo, lo trovai stravaccato come un grosso rospo in quel tempio del generone romano che era la Casina Valadier, in una nube difritto maleodorante. Qui tra un bicchiere della sua inquisita Fiuggi e le risatinefastidiose di due baldracchette di cui non ricordo il nome, mi riempì la testa delle sue panzane: della Roma calcio, da lui distrutta, e delle sue manie di persecuzione. E io pensai che quel batrace megalomane, finta9
,nente pacioso, era in realtà a capo di un vertiginoso giro di tangenti e truffe che spaziava in tutti i campi, perché questo è il genere di uomini che si è arricchito in questi anni in Italia, come noi abbiamo sempre denunciato. Mafia I Il giudice S., uomo alquanto chiacchierato, avrebbe detto a un giornalista che due persone, pare di una famiglia contigua ai corleonesi, avrebbero ammesso di aver partecipato a una riunione in cui altre persone dell'entourage di un potente esponente siciliano di un partito di maggioranza avrebbero detto di aver saputo che un'altissima personalità politica romana avrebbe ordinato a due agenti di un settore statale deviato di impedire che la conoscente di un alto grado dell'esercito diffondesse il nome di un pentito in grado di dare elementi su una riunione in cui si era deciso di compiere un'azione dimostrativa ai danni di un non meglio identificato giudice che pare avesse dato fastidio a un pezzo grosso locale. Mafia II Il giudice Salamella, colluso mafioso, mi ha personalmente detto che i fratelli Totò e Michele Sbafati, detti "i soricilli" gli hanno mostrato il video di una cena in cui Lima, Ciancimino, Fifi o' Recchione e Carmelo Pappalepre ricevettero la visita di Giulio Andreotti che in loro presenza telefonò al procuratore capo di Palermo avvertendolo che Ermes Cicalino e Gianni Poderetti, agenti del Sismi sezione padovana deviata di via Oberdan 28, avevano l'ordine di ammazzare Maria Bellabbro, amante del generale del Sismi Sfavilla, poiché il militare, durante un amplesso contronatura (vedile sei polaroid da noi pubblicate in copertina) le aveva rivelato il nome di Salvatore Bucalaneve, che con Ma/pica, Broccoletti e Mario Moretti, durante una cena al ristorante "Mo/etto" (vedi foto del brindisi finale) aveva deciso di far saltare in aria la casa di Falcone perché Toto Riina il giorno prima, in una centralissima pasticceria di Palermo, aveva urlato davanti a tutti: "Quello o lo ammazzate voi o lo ammazzo io, quanto è vero che sono latitante". OTTANTA, NOVANTA, DUEMILA GIOVANI ENO ALLAFINEDELSECOLO Marino Sinibaldi Nel 1994 compiono 30 anni i giovani nati nel 1964, l'anno di inizio del calo delle nascite in Italia. Vale a dire che da ora in poi i giovani in Italia saranno sempre di meno. Conta qualcosa questo brutale dato demografico? O la giovinezza è davvero diventata una condizione di vita indifferente a ogni determinazione anagrafica, dato che la fluidità lavorativa e sentimentale che dovrebbe connotare "l'età giovanile" è ormai prerogativa di massa, più o meno liberamente scelta e praticata? Molte delle difficoltà a parlare di problemi e culture giovanili dipendono da questa incertezza di fondo, dall'impressione di una mutazione fondamentale del ruolo e dello spazio della gioventù. Quasi che questo valore tipicamente moderno fosse destinato a declinare, esattamente come altri miti e passioni della modernità; o a dilatarsi illimitatamente, fino a perdere le sue caratteristiche e le sue virtù. Tanto che perfino l'estremismo, questa salutare malattia giovani le, sembra diventare una patologia generale, e anzi perlopiù senile, come ha notato Adriano Sofri, invertendo così in vizi (rancore, sospetto, irresponsabilità) le sue qualità (generosità, curiosità, coraggio). Sta di fatto che è difficile individuare luoghi e problemi tipicamente giovanili; e chiunque si affaccia a un concerto rock o persino in un centro sociale, si trova di fronte generazioni largamente mescolate, ben oltre quel limite simbolico dei twenteen agers. Segno della espansione della giovinezza o del la sua scomparsa, del suo trionfo o della fine? Converrà per ora accantonare questo interrogativo. E provare a ripartire dalla storia italiana recente, a rintracciare il ruolo che vi hanno avuto le culture e la presenza dei giovani. (Con una breve ma necessaria precisazione terminologica. Culture giovanili, culture alternative o di opposizione sono formule qui usate nella loro accezione più generica e comune, per indicare un'area di comportamenti e di espressioni la cui dimensione giovanile è 10 forse marginale e la cui connotazione alternativa è spesso immaginaria o illusoria. Ma in mancanza di termini più precisi e col semplice scopo di registrare alcuni percorsi, mi sembra che queste definizioni siano sufficientemente chiare). Gli anni Ottanta sono stati in Italia l'epoca del conformismo consumista, del consenso spettacolare, del narcisismo egocentrico, del trionfo del l'economia e della politica senza morale. Ma nei suoi interstizi sono germogliate culture diverse, di negazione dei valori prevalenti e di costruzione di situazioni alternative. Nello stesso periodo, tuttavia, si è consumata la dissoluzione della principale delle culture di opposizione, almeno dal punto di vista del peso e del radicamento storico: quella della sinistra di origine marxista. L'intreccio di questi tre fenomeni ha segnato quel decennio ma in fondo determina la vitalità e anche l'ambiguità degli orientamenti culturali di questi primi anni Novanta. Ripartire dal periodo alle nostre spalle è allora utile perché consente di intravedere la radice di situazioni e problemi attuali. In quegli anni, proprio perché il consenso consumista e la sconfitta politica sembravano chiudere ogni speranza di trasformazione reale (quasi al riparo di quella sconfitta) sono cresciute le esperienze che oggi segnano l'universo giovanile, o almeno la sua parte più interessante e attiva. E in particolare le due realtà - quella del volontariato e quella dei centri sociali - che sono ormai oggetto di un'attenzione perfino esasperata. Queste esperienze sono figlie degli anni Ottanta non solo cronologicamente ma anche perché segnate, per adesione e reazione, dai tratti culturali tipici del decennio. Alcuni sono evidenti e in parte già studiati: l'idea di partire da sé o dalle proprie prossimità, l'inclinazione a fare, ad agire e costruire anche in piccole dimensionj, prediligendo l'efficienza o almeno la concretezza, secondo una originale combinazione di egoismo e solida-
rietà, per riprendere i termini usati da Luigi Manconi. Alle spalle, l'evento politico più importante, ossia la crisi della sinistra, la perdita di peso sociale e culturale specialmente nelle giovani generazioni. Tra la sconfitta dei movimenti alla fine degli anni Settanta e il crollo del socialismo scorre un decennio esatto. Lungo il quale la progressiva demolizione dei valori comuni, delle certezze teoriche e delle prospettive sociali scava il solco di una sconfitta campale, non solo politica, non solo "di classe". In questo senso 1'89 del trionfo dell'Occidente e del mercato capitalistico non arriva inaspettato, e però rivela la debolezza delle risposte, mostra l'incapacità di elaborare una ormai lunga sconfitta, di superare il fallimento dei modelli teorici e politici tradizionali della sinistra in tutte le sue componenti. Il risultato è una desolante, speculare divaricazione tra una sinistra ormai incerta della propria identità e insicura dei propri valori, e una sinistra che sulla propria identità appare invece totalmente ripiegata. In fondo la cultura giovanile degli anni Sessanta, tra fasti neocapitalistici e ostilità della sinistra storica, si era trovata di fronte una situazione simile. E la deriva ideologica prevalsa dopo i I '68 può forse essere spiegata con questa mancanza di riferimenti, con l'incapacità di riconoscere spazi e prospettive davvero alternative. È possibile che le culture giovanili dei nostri anni, con tutta la loro radicalità e novità, siano destinate e ripercorrere la stessa sequenza rifiuto-protesta-ideologizzazione-sconfitta? Una differenza fondamentale va però almeno accennata. A determinare il clima generale degli anni Ottanta è stata una pervasiva sensazione di chiusura del futuro (No future) che ha assunto tratti disperati o euforicamente nichilistici ma che comunque contrasta nettamente con le grandi speranze di venti anni prima. Un clima su cui ha pesato la crisi ecologica esplosa negli anni intorno a Chernobyl, ma anche un processo più ampio di logoramento del principale mito della modernità, quello del progresso. Gran parte delle espressioni culturali, soprattutto giovanili, di questi anni sono marcate da questa bancarotta delle speranze e dal diffondersi di paure epocali. Ma nonostante questa radicale discontinuità, se si guarda per esempio ai segnali provenienti dalla galassia dei centri sociali, la possibilità che queste esperienze ripercorrano un tragitto già noto appare reale. Soprattutto dove sembra riproporsi un errore decisivo delle culture giovanili e di opposizione italiane degli ultimi decenni. Le potenzialità creative e inventive, le disponibilità a cercare e sperimentare forme nuove, la stessa felicemente disomogenea massa di tensioni, desideri, progetti e insoddisfazioni tendono infatti a essere riassunte sotto una cifra ideologica, a finire ricondotte entro la cornice rappresentata dal riferimento a una logora tradizione politica. L'irriducibilità a quella tradizione delle motivazioni profonde proprie delle culture e delle ribellioni giovanili è apparsa evidente in quasi tutti i paesi occidentali (e ovviamente in tutti quelli est-europei); e proprio per questo in quelle situazioni si sono affermate dimensioni autenticamente controculturali assenti invece in Italia. Il primo rischio che sta di fronte alle culture giovanili oggi è il riproporsi di una egemonia del politico, in particolare della sua dimensione banalmente ideologica. È un rischio che riguarda tutta la parte della società che ha subito lo sviluppo senza giustizia e senza morale dell'opulenta Italia postmoderna e ora paga la crisi economica e morale di quel modello. Ma minaccia in particolare le generazioni più giovani, relativamente prive della memoria storica dei disastri politici e umani provocati dalle ideologie. 12 li secondo pericolo ha a che fare col nodo cruciale dell' affermazione dell'identità. Proprio perché l'identità giovanile appare così sfumata e sostanzialmente indecifrabile, compare la tendenza a forzarla. O meglio, provando anche qui ad allargare il discorso, proprio perché è difficile elaborare una cultura di opposizione e di contestazione intransigente dei valori dominanti, si fa strada la tentazione a risolverla nella pura affermazione di una identità intransigente, radicale, ribelle. È un fenomeno vitale e forse un passaggio obbligato. Ma che per certi versi appare paradossalmente coerente con gli impulsi collettivi, ormai più diffusi nella nostra società, alla disgregazione particolaristica, all'enfasi sul motivo dell'identità piuttosto che su quelli della tolleranza, della convivenza, della comunità. Anche per le culture giovanili, la minaccia principale oggi non è quella dell'omologazione, della cancellazione o del riassorbi mento. In questo, gli anni Novanta sono molto diversi dagli anni Ottanta. Frantumatosi, nel modo osceno che le cronache ci raccontano, quel modello politico-sociale, prevalgono le radicalizzazioni, le esasperazioni, le rivendicazioni di spazi e diritti particolari. Dentro la disgregazione del tessuto sociale, si aprono quelle che un gergo neomovimentista chiama "zone temporaneamente liberate", gli spazi preziosi per esperienze di autonomia, di sperimentazione e di socializzazione. Luoghi di confronto e crescita, da difendere anche quando appaiono concentrati su se stessi e chiusi all'esterno. Ma con la consapevolezza che in questa fine di secolo è davvero di opposizione, è davvero antagonista ai propri tempi una cultura che accanto al problema della propria identità pone quelli della comunicazione e della solidarietà. Altre esperienze provenienti dagli anni Ottanta possono aiutare questo processo. Perché quelli sono stati anni di minoranze, di piccole e meno piccole dissidenze, di lunghe marce dentro e ai margini delle istituzioni. Anche questa realtà diffusa - la cui componente giovanile è consistente almeno per quanto riguarda il grande settore del volontariato-è oggi di fronte a un passaggio fondamentale, alla necessità di conciliare l'affermazione della propria identità con l'assunzione di responsabilità più ampie. Qui il rischio è semmai quello di rifugiarsi in una dimensione di pura testimonianza, di affermazione dei propri nobili valori: la partecipazione, la condivisione, l'impegno personale. Ma quello che negli anni Ottanta ha rappresentato un segnale decisivo di resistenza, negli anni Novanta non basta più: non c'è più una compatta cultura cui opporsi ma uno sfascio cui reagire. Questo vale per le culture giovanili, dall' hip hop al volontariato cattolico, come per chiunque si ponga il problema di salvare e cambiare questa società. I giovani di questa fine secolo vivono la consumazione delle grandi tradizioni culturali e sembrano costretti a un bricolage faticoso e a volte approssimativo che mette insieme suggestioni di diversa qualità; pagano l'impraticabilità della scuola come luogo di formazione e il dominio dell'universo mediatico e spettacolare, sempre più seducente ma sempre più povero di esperienze e conoscenze reali; vivono in modo contraddittorio la dissoluzione ma anche l'insostituibilità dell'istituzione familiare e sembrano divisi tra una vocazione cosmopolita e il richiamo delle radici - esattamente come le passe mischiano nelle loro performance inglese e dialetto. Queste incertezze e queste fratture, però, riguardano ormai l'intera società. Anche per questo se essere giovani non è mai stato facile, è molto probabile che per i (pochi) che avranno quindici o venti anni nel Duemila lo sarà ancor meno.
'83/'93 • IL "LAVORO CULTURALE" INVENZIONE, DIFFUSIONE EAGONIA DÉLL'OPERATORE CULTURALE Piergiorgio Giacchè "Operatore culturale" è un'espressione generica e ambigua, uno di quei termini che hanno due significati, anzi due valori diversi a seconda se si aggiungono come aggettivi o si isolano come sostantivi. Come aggettivo "operatore culturale" è piuttosto un riconoscimento, quasi un'onorificenza che si assegna ad insegnanti, giornalisti, artisti e uomini di spettacolo quando si vuol sottolineare il loro impegno sociale, ovvero quella aggiunta di disponibilità e di efficacia che ricorda qualcosa della vecchia e benemerita "militanza"; come sostantivo vale invece molto di meno e indica l'esercito degli animatori scolastici o turistici, degli organizzatori estivi o festivalieri, dei quadri intermedi o minimi delle associazioni del tempo libero, dei piccoli funzionari o dei giovani cooperatori che gestiscono le biblioteche, emeroteche, videoteche, ludoteche e talvolta enoteche e paninoteche che gli assessorati alla cultura dei mille comuni d'Italia hanno fatto fiorire un po' dappertutto, nei "dorati" anni Ottanta. ' Per la verità, prima di allora l'operatore culturale non esisteva come sostantivo, e, dopo di allora, cioè adesso, ha ormai perso ogni sostanza. Fra qualche tempo nessuno forse si ricorderà di lui, né di quell'epoca in cui la creatività era facile e diffusa come la lussuria e l'erudizione comjnciava da "La Gola", in cui i sarti si facevano chiamare stilisti e i politici statisti e i giornalisti scrittori. In un'orgia di promozioni che parevano non risparmiare nessuno e che avevano decisamente smentito quella pessimistica predizione di Eduardo secondo la quale "gli esarru non finiscono mai ...". Senza più esami, invece, e persino senza concorsi, tutti si ritrovavano assunti nel cielo immenso del terziario intellettuale e finanche facilmente ammessi nell'Empireo dei Media. Ebbene, molto al di sotto di quelle vertiginose altezze (ma con il naso rivolto all'insù) era normale che si andasse formando una folla di giovani apprendisti e di anziani aspiranti: divenire "operatori culturali" era, per costoro, toccare il vertice di una carriera di base, rientrare in un precariato forse più misero ma più nobile degli altri, giacché l'assenza di garanzie e prospettive circa il posto di lavoro era compensata (e magari giustificata) dall'aumento della libertà inventiva e dell'autonomia imprenditoriale che un'attività "culturale" richiede. Qualunque sia la sua specializzazione o collocazione, l'operatore culturale non fabbrica prodotti ma realizza progetti, ogni sua azione è piuttosto un intervento, ogni sua attività si concreta in iniziativa: tutti termini e modi che non si addicono a un impiego fisso ma piuttosto a una libera professione, foss'anche quella dell'umile artigiano delle relazioni e delle idee, che appunto l'operatore culturale è chiamato ad incarnare. Tutti termini e modi che peraltro premjano la sua soggettività, ma che ancora di più vanno a rafforzare il clima di generale e trionfante soggettivismo, dentro il quale l'operatore culturale si sente per davvero garantito. In questo sta in fondo lo stretto rapporto che lo lega ·alla cultura e alla società degli anni Ottanta, di cui l'operatore culturale non è certo il "tipico" rappresentante, ma sicuramente un fedele (tossico) dipendente. L'operatore culturale è piuttosto figlio degli anni Settanta e del le Regioni, ma anche del post-' 68 e dell'alternati vismo; oppure è figlio del creativismo e del '77, o ancora della 285 e della disoccupazione giovanile ... Troppi numeri e troppo poche idee, attorno alla progressiva emersione e proliferazione di una figura tanto imprecisa quanto decisa, tanto sbiadita quanto vistosa, che infine rappresenta una delle maggiori e più incisive novità del panorama sociale. Un'affermazione strana la sua, dovuta più alla dilatazione di uno spazio che all'individuazione di un ruolo; anzi, nella combinazione di assistenzialismo ed edonismo, di aumento del costo del pane e abbattimento dei prezzi dei circenses, di sinistra forte e pensiero debole, soltanto una figura soft e un mestiere free potevano farsi strada. (Tra parentesi, ancora oggi le cifre confermano come, ad esempio, i laureati del D.A.M.S. - forse i più indefiniti prodotti della nostra Università- trovino una maggiore e più rapida collocazione nel mercato del lavoro dei "normali" laureati in lettere e filosofia.) Ora, contrariamente a quanto si crede, l'operatore cu I turale non è affatto interessato a una identità forte ovvero a un'alta professionalità, ma privilegia invece i surrogati del l'immagine e della competenza, che sono i suoi distintivi ma anche i campi e gli obiettivi del suo "intervento". Nella confusione, ma ancora di più nell'abbondanza di "immagini" e "competenze" che l'industria culturale ha da tempo reso accessibili e obbligatorie per tutti, i tradizionali educatori e mediatori - dai preti agli insegnanti agli artisti ... - sono notoriamente insufficienti e inadeguati: occorre ormai far fronte a una massa sconfinata di utenti tutti da attivare, occorre tener conto di un tempo libero virtualmente illimitato tutto da riempire. Più che inventare nuovi ruoli istituzionali, conviene liberare "enzimi" che aiutino il metabolismo e favoriscano la circolazione delle infinite merci e mode della società dello spettacolo; ma, nello stesso tempo, occorrono "anticorpi" che aumentino le difese, provochino le reazioni e promuovano le aggregazioni in cui si manifesta l'autonomia culturale del corpo sociale. Si può dire che, se l'operatore culturale non fosse nato, si sarebbe dovuto inventarlo. E proprio così è andata. Sebbene sia apparso come un fenomeno casuale e spontaneo e malgrado ciascun operatore possa giurare di "essersi fatto da solo", la verità è che la sua venuta era preordinata e la sua confezione era prevista (e sperata) da tempo. Serviva qualcuno debolmente pagato e fortemente motivato a restare nell'indefinitezza e nella marginalità di un metaruolo, per così dire sovrapposto alla rete dei rapporti sociali, così come la Cultura è sovrastrutturale e perfino metafisica rispetto alla Società. Qualcuno di peso specifico leggero, che possa intervenire e però rimanere "esterno" (proprio come si addice a un operatore), che possa essere sempre presente ma che non è mai indispensabile (proprio come si suole adoperare l'aggettivo "culturale"). Se da una parte il mercato dei consumi culturali e spettacolari 13
aveva generato o fatto spazio a un insolito metaruolo, dall'altra le istituzioni delegate e le forze impegnate nella Politica Culturale avevano finalmente trovato un'indispensabile "mezzafigura" - termine che qui vogliamo riscattare sottolineando un suo secondo ma non secondario significato.L'operatore culturale è infatti una "figura che sta a metà" fra la Teoria e la Prassi e che certo non risolve ma copre e talvolta dissolve l'annoso problema della loro conciliazione. Erede involontario del Responsabile Cultura-classica mezzafigura presente non solo nei partiti di sinistra e non solo nei partiti -1 'operatore culturale non risponde più di quella visione per cui il "lavoro culturale" (di bianciardiana memoria) è supporto o compensazione di un'attività politica frustrata nei risultati concreti e ancora di più in quelli della "progressiva presa di coscienza". La cultura era allora un campo vago e sconosciuto, da conquistare o almeno da occupare, anche al solo fine di sottrarlo agli avversari; gli interventi e le manifestazioni "culturali" (quelle poche che non rientravano direttamente nei compiti dell'ufficio Stampa e Propaganda) erano sempre meritorie e indolori, costituivano l'unico "dialogo" al tempo dell'Italia Divisa e rappresentavano la parte più nobile di quello che si chiamava il "dibattito attuale", al quale tutti i politici facevano costante riferimento; le finalità più alte della "politica culturale" (dunque anche del sopracitato ufficio Stampa e Propaganda) erano la difesa della libertà del pensiero, il contributo alla formazione dell'opinione, l'educazione delle masse, ma il vero obiettivo strategico che infine motivava lo sforzo o lo sfoggio prettamente "culturale" era (ed è rimasto) quello di ·attrarre i "ceti medi" di ieri (oppure "il centro" di oggi), cioè quella eterna maggioranza silenziosa e apolitica, che comunque si schieri non appartiene a nessun partito e che è da sempre il buco nero dove ogni attività e ogni idea precipita nel l'entropia. È proprio su questo terreno, paludoso e ambito, che si misurano i vantaggi della nuova mezza.figura del l'operatore culturale, stavolta nel suo terzo e ultimo significato di figura per metà politica e per metà culturale. La sua novità strutturale, rispetto all'esercito dei funzionari e militanti che lo hanno preceduto, sta proprio in questa scissione che si realizza per davvero ed in modo convincente fin dal primo momento. Si può dire infatti che l'operatore culturale deve il suo stesso nome allo stretto e prioritario rapporto che ha con una ritrovata e rafforzata autonomia del la cultura - sia pure intesa e praticata come un settore di mercato o, se si vuole, come uno "specifico"; è questo rapporto ciò che lo spinge ad accrescere la sua competenza e che gli fa guadagnare l'immagine di uno specialista, a sua volta autonomo dalle strategie culturali di enti o partiti: dipendente da tutti non è in effetti rappresentante di nessuno, agisce anzi opera "in proprio", anche se mai "per proprio conto". Sul terreno teorico il primo vantaggio che offre l'invenzione dell'operatore culturale è che si può sciogliere il nodo - fino a ieri convenientemente stretto - fra la politica culturale e la cultura politica: in altri termini, quel rapporto fra cultura e politica, che a sinistra era "organico" (e che a destra era "etico"), può pro eguire nel cielo delle idee ma finalmente sgombrare il piano delle azioni. Può dunque continuare, perfino in sezione, il dibattito serrato e sofferto sul tema "Intellettuali e potere", ma nessuno più ignora come l'inserimento di un provvidenziale "terzo comodo" ha di fatto annullato i suoi effetti paralizzanti ed ha ridotto la sua dittatura ideologica sulla prassi spicciola dell' intervento culturale. C'è adesso qualcuno-piccolo, inconsistente, una "mezza figura", se si vuole finalmente adoperare questo termine nel suo corrente e scadente significato - che si colloca 14 immediatamente in chiave operativa, offrendo il proprio autonomo servizio di mediazione, anzi diffondendo una rete di stazioni di servizio: da lì si potrà far passare una politica culturale libera dalle complessità e dalle impotenze della cultura politica. L'operatore stesso se ne renderà garante: egli non è affatto l'ennesimo buono o cattivo conduttore di scelte o idee prefabbricate, ma un attore sociale indipendente, che si introduce in prima persona nella irrisolta e insolubile contraddizione fra astratto dibattito culturale e concrete esigenze del reale. È la sua sola esistenza, o meglio l'incremento costante del la sua "invenzione", ciò che permette ad amministratori e politici di sospendere gli astrusi problemi del passato e di svolgere senz'altro i temi culturali che il presente realisticamente propone; solo così, fra l'altro, sono finalmente liberi di accettare le sfide e le tentazioni che l'industria e il mercato culturale mettono loro di fronte. Tanto ormai il "lavoro culturale" va avanti per così dire da solo, dal momento che - per quanto li riguarda - consiste nella sola nomina dell'operatore. Quanto alla strategia, nemmeno quella è più un problema, dal momento che risalterà a posteriori, appena messi in fila gli interventi, le iniziative e i progetti che l'operatore ha realizzato, quando si potrà con soddisfazione calcolare "quanto è già stato fatto e quanto resta ancora da fare". In pratica e infine, il vantaggio più consistente sta nel fatto che il risparmio delle proprie "forze" (politiche) è assoluto. Non si tratta più di preparare e sprecare quadri da immettere nel sociale come pesci nell'acqua: l'operatore culturale è plancton che abita già l'oceano del mercato e che ne fa parte. Così come alla fine degli anni Sessanta si erano generati da soli gli studenti, un decennio dopo la società dei consumi e la cultura dei mass media era pronta a far nascere gli operatori culturali: ogni giovane consumatore, specie se collezionista monotematico e monomaniaco di una moda specifica o di un settore speciale, gioca da subito il ruolo di opinion leader ed ha la statura di un consulente per quanto attiene al suo hobby. È un operatore culturale almeno in potenza. Trovato, per così dire in natura, l'attore sociale, il militante o il funzionario di partito è finalmente libero di fare l'assessore, magari socialista. E in fondo, anche prima di essere eletto, già loè. In atto! - Da quando è cominciata questa era in cui, per dirla con Lasch, "il presente è dilatato", si ha la sensazione di guardare tutto insieme, e come tutto uguale, quello che è già successo e quello che ora succede, ma la verità è che, in poco più di un decennio, molte cose e diverse fasi si sono via via accumulate e perfino l'operatore culturale - malgrado la sua nascita recente e la sua morte annunciata - ha fatto in tempo ad avere una sua piccola storia. Una storia più politica che culturale, non soltanto perché, come s'è appena visto, il condizionamento dei politici è stato più pesante di quello del mercato, ma soprattutto perché le iniziative culturali sono cresciute enormemente di numero ma non di qualità: il passare degli anni non ha visto altro che l'accumularsi di "progetti" molto meno efficaci dei tanto deprecati "prodotti", ovvero di "processi" che non contenevano storia né provocavano futuro, usati e gettati come giocattoli rotti, a dispetto del loro alto contenuto pedagogico. Già la preistoria, in cui è racchiuso il segreto delle origini dell'operatore culturale, si era svolta sotto il segno della politica, sia pure quella estrema d'antan: gli anni Settanta non sono stati solo "di piombo" o dell'austerity, ma hanno anche visto gli interventi agit-prop e i circuiti culturali alternativi, le feste del proletariato giovanile e i graffiti degli indiani metropolitani, eccetera eccetera. Tutte cose che corrispondono a periodi e modi distinti di riscoprire e praticare l'attività culturale: si va da
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