Linea d'ombra - anno XI - n. 87 - novembre 1993

formalismi di alcun tipo, suggerisce di identificare tout-court la democrazia con Eltsin, e di schierarsi quindi senza dubbi e reticenze con l'artefice e il protagonista del nuovo corso russo. Sembra quasi di assistere ad un sussulto di leninismo (di priorità· assoluta concessa al "fine" e di indifferenza ai "mezzi" per attuarla) che ricollega il nostro insigne slavista al proprio passato. Alberto Cavallari non nega i pericoli di una possibile democrazia autoritaria, ma ne attribuisce la colpa esclusivamente ai "suoi (di Eltsin) avversari passati all'illegalità dell'insurrezione armata" non potendosi certo "accusare Eltsin se la Russia si trova in questo vicolo cieco" dal momento che il suo potere è stato legittimato da elezioni e referendum. Dispiace che a simili sillogismi giustificazionisti, cui ci avevano abituati i vecchi "amici dell' Urss", si adeguino adesso persone colte e intelligenti che non riescono, evidentemente, a sottrarsi al fascino degli uomini che "incarnano" la Storia. Infine c'è Achille Occhetto, che invita a non scegliere tra i contendenti in lotta (né con Eltsin né con Rutskoj) ma a schierarsi invece con il popolo russo. Questo, che apparentemente sembrerebbe la posizione di maggiore onestà e realismo (soprattutto da parte di chi non è un capo di Stato o un ministro degli Esteri) risulta invece un escamotage propagandistico, un modo per restare nell'ambito di quello "schieramentismo" che costituisce uno dei più inveterati e immutabili vizi politici nazionali: in attesa che si crei e si manifesti un interlocutore concreto a cui dar fiducia si sta col "popolo". Ma quale popolo? Si ha idea di cosa sia adesso il "popolo" russo? Idealizzare il popolo e fare affidamento sulla sua giusta e santa volontà è solo un modo per sfuggire alle difficoltà che presenta l'analisi della realtà est-europea. Il dato da cui partire, amaro ma concreto, è che la lotta in corso nell'ex Urss non riguarda il popolo (se non nei suoi effetti), ma solo le élites. Schierarsi significa dunque scegliere tra gruppi e coalizioni di cui non sempre è agile individuare interessi e obiettivi; stare col popolo, illudersi che esso possa avere ragione è rinunciare a una visione disincantata della democrazia (che non deve voler dire, però, come nei nostalgici del comunismo, ostile ad essa). Nella lotta in corso tra le élites russe, nessuna delle quali, si badi bene, è emersa legittimata se non dalla "forza" che riesce ad esprimere di volta in volta, vi è certamente un aspetto che è proprio della "tradizione" russa e del modo di essere del potere che lì ha avuto corso nei secoli. Ignorarlo, o ancor peggio, attribuire al comunismo la totale responsabilità di quella "tradizione", porta alla comprensione lo stesso ausilio di chi ritiene che sia la vecchia e immutabile "anima slava" la principale responsabile della tragedia cui assistiamo. La formazione di classi dirigenti, quando non avviene nel fuoco di conflitti che accelerano e sconvolgono il corso della storia (e anche lì, comunque, vi è un'esperienza accumulata nel tempo), richiede decenni; così come di decenni, e forse più, ha bisogno la democrazia per riuscire a entrare in modo naturale e continuo nei bisogni e nella mentalità di un popolo. La democrazia europea, di cui pure notiamo i limiti e le difficoltà attuali, selezionò le proprie classi dirigenti attorno a valori, progetti, idee, programmi.L'idea nazionale o di classe che stava dietro quei fermenti, sia che si mostrasse apertamente o solo· indirettamente, serviva proprio a stabilire chi potesse meglio, prima e di più guidare il paese verso nuovi traguardi. Certo vi erano interessi ben corposi dietro le ideologie di libertà e di indipendenza, così come la lotta per la democrazia significava spesso ancor prima che "partecipare" poter sopravvivere e non venir sopraffatto. Nelle diverse fasi di costruzione della democrazia che i paesi IL CONTESTO occidentali hanno conosciuto, vi è stato sempre - accanto alla polemica e alla battaglia politica che giungeva fino ali' odio ideologico - un certo tasso di considerazione e rispetto per i "professionisti" della politica, sia tra loro medesimi che tra la massa del popolo: se non per quelli avversari certamente per i propri. Ciò è palesemente non più vero nell'Europa dell'Est, dove la selezione della classe dirigente (oltre a essere in larga misura predeterminata e incanalata dall'aver già in precedenza partecipato, sia pure a livelli inferiori, alla nomenklatura) avviene nel disprezzo completo degli elettori e degli eletti e tra questi medesimi e nel conseguente atteggiamento "malavitoso" assunto immediatamente da qualsiasi "rappresentante" di qualsivoglia istituzione pubblica. Questo, che è solo uno e forse non il principale degli aspetti che caratterizzano la costruzione delle democrazie orientali, dovrebbe spingere ad un esame comparato di quello che lì avviene sia con quanto è avvenuto in passato in Occidente (quando la democrazia si andava costruendo) sia con quanto vi sta accadendo adesso (mentre la democrazia è in crisi proprio quando ha ormai vinto come senso comune se non, purtroppo, come valore). I nostri media, invece, indulgono ad un atteggiamento di enfasi che è l'esatto opposto - con le ovvie eccezioni - della strada dell'informazione e della comprensione. L'occhiello del titolo di testa di "La Repubblica" parlava del.giorno dell'assalto alla Casa Bianca come del "giorno più drammatico della Rivoluzione d'Ottobre", e la diretta Cnn ripresa da tutte le nostre reti ha riprodotto quello strano fenomeno già evidenziato durante la guerra del Golfo: l'esaltazione e l'ansia della diretta che drammatizzano anche gli eventi più insignificanti insieme alla sottovalutazione di aspetti fondamentali del presente o dei pericoli futuri. La "vittoria" della democrazia nell'Est - e non solo in Russia, come hanno mostrato le elezioni polacche - coincide con il massimo di "impotenza", se non proprio di emarginazione ed estraneità (la prima coatta e subìta, la seconda liberamente scelta: ma si intrecciano) della gente del popolo a controllare il potere, indirizzarlo, parteciparvi. Rifarsi verbalmente ai vecchi e buoni princìpi è sempre utile, purché non oscuri l'interrogarsi sui modi in cui essi oggi hanno - se l'hanno - la possibilità di venire attuati. Proprio nell'Est, paradossalmente, esiste uno spazio minimo di alternativa programmatica a fronte di una scelta di opzioni comportamentali che giunge - molto spesso, tragicamente - fino alla guerra e al massacro. Sul piano del le riforme istituzionali ed economiche, e soprattutto sulla modalità della loro attuazione, vi è uno scarto assai piccolo tra le formazioni politiche schierate agli estremi opposti. Ma il loro agire per rafforzare o conquistare nuovi spazi di potere giunge invece a livelli di conflitto inimmaginabili in democrazia e non si ferma di fronte a nulla. Lo scontro tra Eltsin e il Parlamento è, a questo proposito, esemplare. li presidente russo, che pure aveva buone ragioni per rivendicare una nuova legittimazione del potere attraverso l'elezione finalmente democratica del Parlamento, non aveva alcun motivo per respingere la proposta (di compromesso e onorevole capitolazione) di far svolgere contemporaneamente le elezioni presidenziali e quelle politiche. A Eltsin, tuttavia, lo scontro interessava come occasione per sbarazzarsi di un forte gruppo contrario, non per imporre, sia pure dall'alto, un po' più di democrazia. Di qui la scelta calcolata dell'esasperazione, l'attesa della provocazione del rozzo e violento Rutskoj, le esitazioni per far precipitare la situazione e la sanguinosa resa dei conti. La situazione dell'Est almeno in una cosa è drammaticamente analoga a quella che si ebbe in Europa negli anni Trenta: nella 5

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