Linea d'ombra - anno XI - n. 87 - novembre 1993

INCONTRI/SHAWN identificazione, anche soltanto culturale, con il mio retroterra ebraico. Non che lo negassero, ma non ci tenevano. Ad esempio non usavano parole yiddish. E mio padre non sembrava affatto ebreo. Invece i suoi parenti di Chicago, pur non essendo particolarmente osservanti, erano molto ebrei, ebrei buffi e vivacissimi. Mi piaceva molto andarli a trovare. Ti raccontavano storie della famiglia? No, a nessuno piaceva parlare del passato. E anche se io continuavo a fare domande, mio nonno mi rispondeva solo con battute o scherzi. La famiglia di Chicago era vivace e rumorosa, mentre mio padre era molto quieto. In particolare lo zio più anziano era molto, molto teatrale. Gli sarebbe piaciuto fare l'attore comico, ma il nonno era diventato un conservatore e non glielo aveva permesso. A chi somigli? La gente dice che somiglio a mio padre. Non sei d'accordo? È che quando la gente dice "mio dio, è Bill fatto e finito" mi innervosisco un po'. Ma evidentemente gli somiglio. Quali erano le convinzioni politiche dei tuoi genitori? Erano entrambi dei liberal classici. Adoravano Roosevelt. Di fatto - e mi riferisco agli anni Trenta - non sapevano nulla di comunismo o di socialismo. E anche se ne avessero sentito parlare, non ne avrebbero capito il senso. Erano convinti che Roosevelt stesse facendo un buon lavoro. Ce l'avevano con il fascismo che aveva preso piede in Europa e non vedevano l'ora che gli Stati Uniti entrassero in guerra. A guerra finita hanno continuato a essere due normalissimi liberal americani: Adley Stevenson era il loro uomo politico preferito. Ho sempre pensato che gli sarebbe piaciuto che io diventassi come lui. Ma non è andata così. Era una loro aspettativa reale? No, non credo. Durante la guerra del Vietnam i miei genitori, che ali' epoca avevano circa sessant'anni, hanno comunque assunto posizioni molto più radicali. Avevano subìto una tremenda disillusione e questo aveva fatto di loro due persone estremamente impegnate e pubbliche, benché prive della sia pur minima coscienza di sinistra. Credo che non gli passasse neppure per l'anticamera del cervello di pensare che la guerra del Vietnam fosse un' espressione del sistema politico nordamericano. Ne facevano una questione morale? Sì. Per loro valeva una nozione sola: l'America, con le sue nobili tradizioni, non avrebbe dovuto fare cose così terribili. Erano inorriditi davanti alla brutalità del nostro esercito, ma continuavano a credere nella nobiltà delle intenzioni americane. Erano degli intellettuali? Sì, direi di sì, anche se mio padre continuava a dichiarare che lui e i suoi amici non lo erano affatto. Credo Io facesse per prendere le distanze da altra gente di New York, Mary McCarthy, Edmund Wilson o Dwyne McDonald, che conosceva bene e con cui non 64 voleva essere assimilato. Ma penso che si trattasse piuttosto di una specie di differenza politica. Lui diceva di no, ma a ripensarci adesso è evidente che quelli che lui definiva intellettuali spesso erano persone in grado di dare una lettura teorica dei fenomeni sociali, oltre che dotate di una maggiore capacità d'analisi. Ma se per intellettuali si intende gente impegnata con questioni non strettamente legate agli affari, alla legge o ali' amministrazione, beh, non c'è dubbio che lo fossero. Dunque tu sei cresciuto in un ambiente aperto e sofisticato, a contatto con i migliori cervelli d'America. Sì, una fetta dei migliori cervelli. Ma con te voglio essere franco: mio padre era il direttore del "New Yorker" e, come sai, gli scrittori di questo settimanale erano meglio degli intellettuali, pur sapendo di non rientrare affatto in quella categoria. Sapevano di essere molto intelligenti e di scrivere dell'ottima prosa, ma non avevano ricevuto un'educazione altrettanto buona, non avevano la storia della civiltà occidentale in punta di polpastrello, non era detto che avessero letto i grandi capolavori della letteratura. In Italia la separazione non è così netta ... Infatti si racconta - e non so se sia una storia vera - che Dorothy Parker ruppe i rapporti con la gente del "New Yorker" proprio per questa ragione. Stava discutendo con un gruppetto di autori legati alla rivista e loro si erano messi a fare battute su Proust, che per altro non avevano mai letto. Non lo avevano mai letto e prendevano in giro chi lo conosceva. Perché? Perché era così serio. E lei si era ribellata. Aveva detto che era ridicolo e che non voleva avere a che fare con gente del genere. Mio padre era molto speciale, non era un tipico New Yorker. Era molto, molto più pesante, per qualche verso la sua serietà era addirittura dolorosa. Al giornale non è mai stato esattamente al suo posto, anche se lo ha diretto per trentacinque anni. Andavate d'accordo? Fondamentalmente sì. Ci vorrebbero tremila ore per spiegarsi, ma fondamentalmente sì. E tua madre? Lavorava anche lei? No. Per la verità aveva cominciato a lavorare come giornalista e aveva avuto un incredibile successo quando era ancora molto giovane. All'epoca lavorava per il "Daily News" di Chicago, un quotidiano molto importante, e aveva ventun anni. Ma poi ha rinunciato del tutto alla carriera, apparentemente senza alcun rimpianto consapevole. E senza che nessuno la forzasse o le chiedesse di lasciar perdere. Le ho domandato milioni di volte se non si fosse pentita. Mi ha sempre risposto di no, almeno sul piano conscio. Ritorniamo alla guerra del Vietnam, ma questa volta parliamo di te... Beh, nel 1965/66, quando gli americani si sono fatti coinvolgere fino in fondo nella guerra, io ero in India. Più tardi, tra il '66 e il '68, ero studente a Oxford. Poi, dal '68 al '70 ho insegnato in una

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