per fermarci in contemplazione dei morti battelli all'ancora, torve, e smanjose d'avventura. Ora alle nostre spalle incombeva il maligno incantatore. Ci scambiammo uno sguardo: quella figura ci era fami Iiare nelle fantastiche grisaglie di certe pellicole di allora, viste e riviste in accecanti pomeriggi nei cinema locali, dove l'odore della celluloide si mescolava al tanfo di velluti corrosi e cicche spente. Il volto grifagno e i chiari occhi di predatore erano quelli di Giannettaccio, lascivo nel gesto di strappare i veli dal seno di Ginevra nella Cena delle beffe; quelli del principe barbaro, giostrante perfido dal suo carro falcato nella Corona di.ferro. Mai avremmo avuto la certezza che fosse lui, ma quel nome, Osvaldo Valenti, vorticò nei nostri occhi fugando ogni dubbio: perché sull'altera calvizie era calcato il basco grigioverde della X Mas, dal quale sfuggiva menzognera l'aureola dei capelli biondi. E questo ci era noto: aveva, d'impulso, scelto di arruolarsi nell'esercito della repubblica di Salò, sotto le insegne dannunziane di un principe, come se qualche fosco dio della guerra civile avesse preteso i servigi di un guitto versato nelle arti dell'inganno. Non appenasi mosse lo seguimmo, liceali indolenti negli abiti scozzesi, la cinghia coi libri sotto il braccio. Odiavamo la città, odiavamo noi stesse, incattivite dall'inazione e fatue, mentre sogni grandiosi ci pulsavano alle tempie. Ma in quell'istante fummo noi, le spettatrici, a inventare lui; e, avendo deciso di usarlo chissà come, a contagiarlo, in una trasfusione di sottili voglie sepolte. Lui - si diceva - fiutava cocaina. Ma, nelle pupille di adolescenti, noi avevamo un tale faro luminoso e spietato che nessuna droga avrebbe potuto ritagliare più nitidi i contorni di quel teatro che stava per crollare o imprimere ai nostri passi una più angelica determinazione. Nella luce rosa che traboccava come un liquido dal cielo al tramonto tingendo le grigie pietre e i volti dei passanti, lo pedinammo, su e giù per il corso affollato, senza perderlo di vista, mai, pronte a seguirne le orme dovunque, pur di esporci alla pioggia d'oro del dio. Quando, dopo un discreto pavoneggiarsi, entrò di scatto nella gioielleria più rinomata della città, all'angolo tra il corso e la piazza del duomo, affrettammo il passo e ritornammo poi ad appostarci davanti alla vetrina, esitanti, come guardie del corpo non volute o paggi riluttanti, attente a ogni suo gesto. Curvo sul banco il gioielliere, calvo e pingue, aveva sciorinato i suoi tesori in ghirigori lucenti, mentre, accidioso, lui assisteva senza toccare e quasi senza guardare. Finché ci parve che, seguendo un umore repentino, afferrasse un anello d'onice e poi lo scartasse per un rubino, come chi, avvezzo al sangue, ne cerchi il colore e l'energia nella pietra che più gli è affine. Con un pacchetto turchino appeso per la cordicella d'oro a un dito inguantato, ci affrontò uscendo: "Se non vi decidete a chiedermi un autografo, sarò io a chiedervi qualcosa in cambio" malizioso, sicuro della nostra innocente disponibilità. Ma, poiché tacevamo, l'arroganza luminosa di quegli occhi che avevano carpito il loro verde a onde o erbe mattutine si contrasse e si spense nei gorghi dell'iride. Con una punta d'ansia ci interrogò: "Siete di qui?". Annuimmo. "Allora" riprese un po' canzonatorio "sapete bene dov'è l'Hotel du Lac!". STORIE/BULGHERONI E, al nostro cenno di assenso: "Vi chiedo" esitò "vi chiedo di recapitare questo" e si sfilò dal dito il cordoncino dorato "a una signora di cui non vi dirò il nome. Basterà che al marò di guardia alla porta consegnate un messaggio per. ..". S'interruppe; come un ragazzo impaziente rientrò nel negozio, e, con la massiccia stilografica del gioielliere, scrisse, appoggiandosi al muro, un biglietto che piegò in due e sigillò in una busta. "Sarà il vostro lasciapassare. Per la fulva e per la bruna!" e ci fissò con un'intimazione di congiura: "E ora al lavoro, figlie dell'aria!". Lara, di un battito di ciglia più temeraria di me, si scostò, teatrale, una lunga ciocca bionda dall'occhio sinistro e tese un palmo fermo. "Il marò" concluse lui, e trasalì come di freddo o di subita malinconia "vi scorterà fino alla camera della signora. A lei sola consegnerete quest'astuccio". Ci avviammo trasognate, certe di essere seguite, o forse dirette, dal verde raggio di uno sguardo disperato, e altere tra la folla che a quell'ora si riversava dagli uffici e daj negozi nella piazza per sostare di fronte al lago, sulle panchine e nei caffè, quasi che un altro tramonto, altri grappoli di lillà nel cielo e tralci argentei sull'acqua fossero garanzia di un'eterna vendemmia. Fuori le mura l'avaro respiro grigio della città si allentava fondendosi coi capricci delle brezze e dei venti. L'Hotel du Lac, al margine di quello che era stato un tempo il porto, conservava nelle sue sbiadite efflorescenze liberty una sorta di fatua promessa. Si favoleggiava, ora, di feste e di concerti, di ricevimenti, in una parata di decoro militare che esorcizzasse, con i fantasmj del regime, le ombre cosmopolite dei turisti defunti. Sulla soglia marmorea - al confine del territorio nemico - ci arrestammo, così che il marò di guardia all'ingresso quasi ci strappò di mano il messaggio e, intimandoci con un cenno di aspettarlo lì fuori, scomparve senza una parola. Sedute sulle poltroncine di bambù del]' atrio, tra le esili colonne di stucchi bianchi e dorati, due donne in abito da sera nero ci fissarono complici nel gioco degli specchi, la bionda e la bruna in attesa. Ricambiammo lo sguardo, accese di curiosità, e, mentre un suono di violini risvegliava loro dall'incantesimo di un tenue riconoscimento, il marò, di ritorno, ci invitò a seguirlo su per la bianca scalinata. Non avevamo sentito mai così acre nelle narici l'odore dell'angoscia come in quella stanza semibuia nel crepuscolo dove lingue di fuoco rettangolari, penetrando dalle veneziane, lambivano il gran letto a baldacchino: tra le lenzuola smosse lei respirava come sotto un peso d'acqua che la soffocasse. Il volto barbarico era bianco - bianche le labbra - e le sopracciglia lunghe e sottili lo decoravano come un fregio d'ali, scomparendo tra le ombre dei capelli. Allo scatto della porta che si chjudeva levò d'istinto una mano a coprirsi e batté le palpebre; ma non c'era luce negli occhi obliqui, ciechi spiragli su cui s'impresse il sigillo delle ciglia nere. Era drogata? o pericolosamente assopita per l'effetto di un farmaco? Avevamo fantasticato che l'astuccio contenesse il rubino, e il rubino nascondesse un grano di cianuro. Ma se avesse scelto, lei sola, il proprio strumento di morte? La chiamammo, ci chinammo sul suo corpo, paralizzate noi stesse perché nella stanza non sentivamo più l'odore straniero, femmineo, dell'angoscia, ma il 61
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