IL MESSAGGIO Marisa Bulgheroni Marisa Bulgheroni, nata a Como, ha iniziato il lavoro letterario a Milano pubblicando storie di viaggi, inchieste e ritratti su "Comunità" e "li Mondo". Ha contribuito a far conoscere in Italia la narrativa contemporanea degli Usa con saggi come Il nuovo romanza americano (Schwartz, 1960) e traduzioni come/ beats (Lerici, 1964). Ha insegnato nelle Università di Milano, Pavia, Catania, Genova, continuando l'attivi tit di critico militante sulle pagine di "Paese Sera", "L'Unità", "L'Indice dei libri". Di recente ha approfondito lo studio dell'immaginazione "moderna•· in saggi su figure cruciali quali L. Sterne, V. Woolf, W. H. Auden, E. M. Forster, K. Mansfield e E. Dickinson, di cui cura, per Mondadori, l'opera poetica completa. Dopo l'esordio narrativo con Macchine da guerra in "Linea d'ombra" (n. 60, maggio 1991) ha pubblicato Gli orti della regina nell'antologia Racconta 2 (La Tartaruga, 1993) In certe notti del l'aprile 1945 ci sembrava di udire, nell'ora color dell'ardesia che precede l'alba, uno scalpitio, un serrarsi di cavalli al galoppo lungo i bastioni della città murata; poi, alle prime luci sulla lastra di diaspro del lago, un tonfo di zoccoli, un frangersi di vetri e metalli. Di giorno correvano fuochi fatui di voci biforcute - la città stava per capitolare: si trattava segretamente la resa; la città avrebbe resistito, ultima roccaforte sul confine: nessuno si sarebbe salvato. E di nuovo, la notte, quello scalpitio vicino ali' orecchio atterrito premuto contro il guanciale. mentre il cielo, deserto d' aerei, irradiava una vitrea minaccia: non stelle sarebbero cadute, né bombe, ma le tenebre d'inchiostro della fine. Avevamo nome di viventi, ma eravamo già morte. Il mattino ispezionavamo le pietre del selciato per trovarvi l'impronta del passaggio apocalittico, ma il corpo resistente del la città, grigia dentro le mura medievali, non ne serbava traccia. Uno strano destino l'aveva fino ad allora risparmiata dalle bombe esponendola all'incantamento di una fittizia immunità, come un frutteto dalle delicate fioriture intatte nella gelata. E ora pareva che la distruzione potesse venire non dal cielo, ma dal lago, dai monti, dal varco nella pianura, dallo stesso sottosuolo. Uscivamo di casa; e, dagli androni dei palazzi schiusi sul bagliore di smeraldo dei giardini, e poi dalle finestrelle dei vicoli malfamati che percorrevamo per infilare più rapide il corso, e infine, già in vista del lago, dai graticci dei magazzini, dai seminterrati degli alberghi occupati dai fascisti, dalle cantine delle ville liberty requisite dai tedeschi, ci giungevano fiati di catacombe, e sibili, mai un urlo, come se un teso silenzio venisse a tratti lacerato da arti sotterranei intenti a cuciture mortuarie. Ma non si vedeva niente, né, forse, si udiva se non nelle chiocciole di orecchie come le nostre, dove tonfi e fragori, e storie su storie di interrogatori e sevizie si erano depositati in sabbie minute e ne piovevano, ora, come da clessidre decapitate. Lo sapevamo: nelle città in guerra, nelle città occupate dal nemico, assediate, vendute - nella frazione di tempo che separa l'inerzia dalla violenza - l'agonia diventa vacanza. La notte Satana cavalca coi suoi: una città vale l'altra purché ci sia odore di polveri, di fumi, di furti, di torture. Ci sembrava di vederlo: come grandine schiantava le foglie nuove dei platani lungo i bastioni; 60 Foto di Giovonni Giovonnetti. come rapace s'impennava tra le guglie bianche del duomo. E poi, licenziati i suoi, attendeva impaziente che si aprisse la prima edicola, il primo bar per apparire repentino nelle vie del centro; e strappare il giornale dal le mani del primo passante che rabbrividiva al colpo di vento; o sbarrare il passo all'adolescente pallido nella divisa di brigatista nero che stringeva convulso il mitra; o slacciare il grembiule alla querula commessa sorpresa nell'atto di alzare la saracinesca dell'antica pasticceria del corso, dove dolci di catrame e pietrisco nidificavano nelle bacheche scintillanti. Fu lì, riflesso come Narciso nel cristallo della vetrina, che avvistammo il nostro satana, un p0meriggio dopo la scuola, e rimanemmo immobili ingiungendoci, con un colpo di gomito, di non voltarci. Da poco avevamo messo, Lara ed io, il cappotto e il basco blu marino - la divisa con cui avevamo pattugliato le strade della città nel lungo inverno, spesso spingendoci fin sulla riva del lago, in quella stagione bianconebbioso come l'Islanda,
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