INCONTRI/McMILLAN Il fatto che ci piacciano gli uomini e che ne desideriamo uno non ha in sé nulla di antifemminista. f-oto di Enrico Bosson (da Exit, Pelitì Associati 1992) Tu sei del Sud? No, del Michigan. Ma adesso vivi a San Francisco. Sì, nei dintorni della città. Hai mai abitato a New York? Sì, ci ho abitato per dieci anni. Poi me ne sono andata. Non volevo farci crescere mio figlio. E poi ne avevo avuto a sufficienza. Dieci anni a New York bastano e avanzano. Però l'ho amata moltissimo e devo ammettere che, se non avessi avuto il bambino, probabilmente sarei ancora lì. Forse. Perché New York non è adatta a un bambino? Perché è frenetica, disorientante e troppo cara e perché non credo che a New York i bambini possano essere bambini. Che età ha tuo figlio? Nove anni. Dove viviamo adesso, non devo preoccuparmi per lui. Può uscire da solo, andare a scuola in bicicletta, giocare ali' aperto, tenere un cane, andare per ruscelli e arrampicarsi sul le colline dietro casa. Può essere un bambino. Sai, non gli ricapiterà mai più di esserlo e io ci tengo a dargli la possibilità di farne l'esperienza. E non sarà un bambino per molto. Un respiro di sollievo è, a modo suo, un romanzo femminista. Che effetto ti fa questa definizione? Mi sta bene. Decisamente. Eppure alcune aree del movimento delle donne nordamericano se la sono presa con te e ti hanno rivolto accuse pesanti ... Sì, sono stata criticata perché nel mio libro le donne si occuperebbero troppo di uomini. La mia risposta è: il fatto che ci piacciano gli uomini e che ne desideriamo uno non ha in sé nulla di antifemminista. Questo lasciamolo credere a quei naif che non capiscono che cosa sia il movimento delle donne. Questa accusa la considero una vera sciocchezza. Essere femministe non significa necessariamente avere voglia di stare sole e rifiutare la compagnia degli uomini. Questa per me è pura follia o stupidità. Parliamo piuttosto degli atteggiamenti, dei comportamenti, dell'attitudine verso la vita, il lavoro ecc. delle protagoniste del mio libro: pur essendo molto diverse tra loro hanno in comune una cosa ben precisa, non sono passive. Sono convinte di avere dei diritti inalienabili e di poter ottenere quello che spetta loro. Per quel che mi riguarda questo è un atteggiamento femminista. Non si sentono né insicure né inferiori e non si lasciano intimidire dagli uomini. Il fatto che continuino a volere la compagnia di un uomo, che ne parlino con tanta insistenza, che questo sia un po' il nodo attorno a cui girano, non pregiudica affatto la loro dignità di individui e la loro indipendenza. Quanto sta succedendo tra uomini e donne appartenenti alla comunità afroamericana è, a tuoparere, radicalmente diverso da quanto sta capitando tra bianchi? O ci sono delle costanti? Ci sono delle similarità, ovviamente. Ma certi problemi, tipici della nostra comunità, non necessariamente sono presenti nella comunità dei bianchi. Diciamo che alcuni dei particolari sono differenti. Ti faccio degli esempi: tra i neri sono le donne, non gli uomini, a studiare e a farsi un'istruzione e questo ha avuto un effetto sulla nostra relazione con i maschi. Nella nostra comunità si fa un forte uso di droga. Con il risultato che molti dei nostri uomini sono in carcere. Le madri capofamiglia, tra noi, sono quasi la norma. Nel tuo libro però tu hai scelto di non attenerti a copioni in qualche modo stantii: ben due delle tue quattro protagoniste, Savannah e Bernadine, sono decisamente benestanti, indipendenti, emancipate. Hai quindi rotto almeno altri due luoghi comuni: non tutti i neri sono poveri e disoccupati e non tutte le donne nere sono più diseredate dei loro uomini. Il fatto è che non siamo tutti poveri. Molti neri americani hanno infatti accolto con sollievo il mio libro, proprio perché finalmente mette in luce un altro lato della questione. Per lo più la fiction ci ha rappresentati come poveri e come vittime. Non siamo tutti vittime, non lo siamo proprio. Da parte mia non è stata una scelta consapevole. Non è che mi sia detta: beh, è ora di mostrare un altro aspetto della vicenda. È che questa è la mia realtà. Del resto non mi considero neanche una portavoce, una rappresentante di niente. Io mi limito a raccontare le mie storie. Nel tuo romanza ci sono molti elementi autobiografici? Entro una certa misura sì: a Savannah ad esempio ho dato alcuni aspetti della mia personalità e molte delle mie opinioni. A Gloria forse ho dato le mie preoccupazioni di madre single. Ma direi che è tutto qui. Non mi identifico per niente né con Robin né con Bernadine: non mi riconosco in loro intimamente e non sono passata dalle loro stesse esperienze. Per costruire i tuoi intrecci e personaggi ti ispiri afatti reali e a esperienze di vita vissuta? Sì e no, perché se è vero che raccolgo materiale dai posti più disparati, le mie però sono sempre esagerazioni. Mi capita di servirmi di cose che magari ho sentito da amiche e sorelle oppure letto da qualche parte. Può trattarsi di una conversazione sentita per caso in un ristorante o al cinema. Oppure del ricordo di cose 57
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