Linea d'ombra - anno XI - n. 87 - novembre 1993

STORIE/SHUA Un infermiere l'aiuta a salire sul lettino. Il viaggio verso la sala parto è spaventoso, il dolore si fa sempre più acuto, non la lascia mai. posa la testa sul suo ventre si lascia accarezzare da Laura, che non sa se lo ama. Laura permette che Gerardo e i suoi genitori, che si odiano moderatamente e talvolta sono complici, decidano la data delle nozze, l'affitto dell'appartamento, i molti dettagli. Lei si immerge, sonnolenta, nelle sensazioni del suo corpo. I primi mesi non ha nausee ma dorme molto. Un fine settimana fanno un viaggio a Miramar con una coppia di amici e Laura dorme tutto il tempo: nel viaggio di andata, in albergo, nel viaggio di ritorno. Gli altri le fanno battute che accetta distratta, sorridendo. La convivenza con Gerardo potrebbe diventare difficile e probabilmente lo sarà in seguito, quando Laura abbandonerà quest'indifferenza che le consente di contemplarsi dall'esterno, come in un sogno. Prima che si compiano i tre mesi Laura teme un aborto spontaneo, il giusto castigo per aver voluto staccarsi da questo figlio che ora tanto desidera. Non corre, non si china, si siede con delicatezza, evita le scale. Durante questo periodo cammina con il torso rivolto all'indietro, tirando fuori la pancia. Dal quarto mese non ha bisogno di simulare, cominciano ad andarle bene i vestiti larghi. Laura sente ora i primi movimenti del bebè, come quelli di un pesce rinchiuso in un vaso troppo piccolo che, nel suo va e vieni, colpisce dolcemente contro le pareti di vetro. Obbliga Gerardo a restare lunghi minuti con una mano appoggiata sul suo ventre e nonostante lui affermi di sentire i colpettini, lei è sicura che menta. Ha fiducia nel suo ginecologo, un medico giovane ma coi capelli bianchi che ha un curioso repertorio di barzellette per far ridere le donne incinte. Anche se non le piacciono e a volte si ripetono, lei ride sempre, cortesemente. Verso il sesto mese crede di sentire più contrazioni del solito, il medico le prescrive Duvadilan e riposo. Non è impaziente, si gode il proprio corpo, fa lunghi riposi, di notte ha l'insonnia. Verso la fine cominciano a farle male le articolazioni delle gambe, specialmente le ginocchia. Laura è aumentata di peso più del dovuto e il medico l'ammonisce dolcemente, le indica una dieta senza sale. Ora i movimenti del bebè sembrano provocare grandi ondate nel suo ventre, un flusso e riflusso di liquido che si può notare anche con uno sguardo, ma a Laura non basta, le piace appoggiare le mani per sentirlo anche da fuori. Laura compra pannolini e ciripà ma non riesce a decidere cosa sia meglio per lavare un bebè, se tinozza o bagnarola. Il dubbio la tiene sveglia varie notti, non può parlarne con Gerardo che è stufo di ascoltare i suoi commenti a favore e contro la tinozza o la bagnarola. L'impazienza arriva al limite. L'ultima settimana è quasi insopportabile, i minuti si trascinano come lunghi vermi gialli. Un sabato sente la prima fitta di dolore mentre mastica un agnolotto. È come un piccolo terremoto che la scuote e passa rapidamente. Teme e aspetta (desidera) la successiva. I dolori continuano in modo irregolare tutto il fine settimana e la notte di domenica si succedono ogni sei minuti. Il medico le prescrive un antispastico e dice di richiamarlo se non fa effetto. All'una di notte si ricovera con Gerardo in ospedale, un edificio antico che a quell'ora di notte ha un'aria desolata e lugubre. Le fanno un'iniezione che serve per eliminare le contrazioni inutili. Il processo non si ferma. I dolori ora sono terribili, la respirazione non serve per controllarli, gridare la placa. Tra doglia e doglia Laura cerca inutilmente di rilassarsi, si rannicchia contratta sul letto, vomita. Il dolore, come una nube, sbiadisce la sua percezione, tutto è dolore, nonostante cerchi di aggrapparsi all'immagine del figlio non riesce a ricordare perché e per cosa si trovi lì. Alle sette del mattino il medico viene a trovarla, la tranquillizza e si accomiata, la vedrà la prossima volta in sala parto. Un infermiere l'aiuta a salire sul lettino. Il viaggio verso la sala parto è spaventoso, il dolore si fa sempre più acuto, non la lascia mai, sembra non esserci pausa tra le contrazioni, si succedono ogni minuto. Nella sala la sta aspettando un medico, la sua faccia le sembra familiare, non riesce a ricordare dove l'ha visto prima, ha i capelli scuri, non è il suo ginecologo. Il dolore attenua la sorpresa, e Laura è già distesa sul lettino alto con le gambe alzate e appoggiate sui due semicerchi di metallo. È difficile capire perché la leghino così, le gambe e le braccia, come per impedirle ogni possibilità di esprimersi, non di difesa, perché è impossibile difendersi in questa posizione, una gran tartaruga di mare che è stata girata sul suo guscio per lasciare esposte le parti più tenere, più saporite. Le legature di gomma tirano appena la pelle dei suoi polsi e Laura spera nel l'anestesia. Solo quando le mettono sulla bocca e il naso la maschera del gas e comincia a respirare quell'odore giallognolo che sembra salire direttamente dal naso al cervello, scopre che non dormirà, che il gas la intontirà solamente, rallenterà i suoi movimenti, separando il corpo dalla volontà dove crescerà il dolore. Il suo io si acquatta in un angolo della testa dove giungono nitidamente le sensazioni a cui non può più rispondere. Come i colpi di un martello su uno scalpello introdotto nella sua carne che viene scolpita, cesellata dall'interno, il dolore si fa avanti nella nebbia giallo verde che la avvolge, mentre Laura cerca di respirare profondamente, più profondamente, per dissolverlo nel gas che entra dalla bocca e dal naso senza riuscirci, sentendo nonostante tutto le voci lontane, finché la sua mano destra riesce a sciogliersi dalle legature che la tenevano prigioniera al bordo del lettino e alzarsi in una richiesta muta, senza cercar di interferire con il castigo, senza interromperlo. Riesce appena a paragonare i colpi del martello che introduce sempre più profondamente lo scalpello con quell'altro dolore immaginario, probabilmente prodotto dallo strumento che lei non ha visto e non vedrà, ma che sta lavorando lì, molto dentro, reiterando quei colpi che risuonano quasi nel suo orecchio portati dal sangue. Qualcuno la trasporta tra le braccia e la depone dolcemente su uno dei lettini della stanza accanto, dove alcune donne la guardano con curiosità e altre evitano di guardarla. Ora Laura segue obbedientemente le tappe previste, sdraiata, seduta sul letto, seduta sulla sedia, andandosene alla fine mentre l'infermiera le mette in mano un foglietto ciclostilato in cui si indica di fare alcune ore di riposo, di prendere tetramicina, di seguire una certa dieta. Gerardo la sta aspettando per accompagnarla fino a casa di un'arnica dove passerà il resto della giornata. Nel taxi le accarezza meccanicamente una mano, cominciano a sospettare che non si amano. Copyright Ana Marfa Shua 1992. 51

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