CONFRONTI camente: una falsa soluzione che lascia irrisolta la questione di fondo persino in un paese con scarse tradizioni musicali, con una storia della musica che si identifica con la cronaca e l'attualità, come gli Stati Uniti). Per snobismo e stupidità (e in Italia, in particolare, con l'avallo della condanna crociana della musica in sé: nulla di cui stupirsi, dunque, se, secondo una ricerca Rai di qualche anno fa, il nostro paese può "vantare" la penultima posizione, nel mondo!, per quel che riguarda il livello del!' istruzione musicale!. ..), per snobismo, stupidità e pigrizia intellettuale, dicevo, questa ricchezza musicale si perde totalmente: da una parte, infatti, alcune di queste musiche vengono considerate troppo "basse" per costituire oggetto di analisi culturale; sull'altro fronte, le musiche cosiddette "alte" risultano inascoltabili (dato anche il livello mediocre della cultura musicale) e, di fatto, inascoltate ("pensi davvero, mi diceva Berio qualche anno fa, che un pover'uomo, dopo otto ore di lavoro, tornato a casa, messosi le pantofole e sprofondato in poltrona, possa delegare la colonna sonora del suo meritato riposo a 4 minuti e 33 di John Cage?" ...). Ma il non cogliere la novità di questa molteplicità, il non affrontare (sapere, volere o poter affrontare, secondo i casi) le nuove difficoltà che questa ricchezza pone, fa sì che, e non solo in Italia, si parli (e si scriva) poco o nulla di musica, dopo l'indigestione degli anni Settanta. Questa specie di paralisi credo sia dovuta solo parzialmente a una presenza meno invasiva della musica nella cultura, e nella stessa vita quotidiana. Penso, piuttosto, che sia il risultato di un'occasione persa: quando, alla fine degli anni Settanta, ebbe termine(o, comunque, sembrò fermarsi un attimo) quel continuo e rapidissimo mutare, rinnovarsi, rigenerarsi, rincorrersi delle esperienze musicali le più varie e diverse, nessuno seppe approfittare di quella "pausa" (salutare, se non altro, per l'udito!) per tentare una riflessione su ciò che era avvenuto (o stava ancora avvenendo), tentando una sintesi che permettesse di ripartire da un raggiunto livello superiore (e non parlo solo dei musicisti, anzi: parlo più precisamente di critici e teorici). Insomma non si fu capaci di far tesoro dell'esperienza accumulata, uscendo dallo "stupore" che aveva colto un po' tutti di fronte ali' esplodere dei fenomeni musicali (e al loro mescolarsi e dividersi in modi inaspettati), e, soprattutto, uscendo da quell'orgia di consumi disordinati. Disordinati e, dunque, del tutto inutili (se non anche dannosi) al fine di separare il grano dal loglio e di invididuare una prassi di composizione e di ascolto certamente ricca e variegata, ma non indifferenziata: di fatto, invece, nel panorama musicale di questi ultimi anni, quel disordine consumistico è diventato così abituale (e pochissimo stimolante) che sembra del tutto naturale passare indifferentemente da Mozart ai Pooh, da De Gregori a Puccini e, perché no? da Strauss a Moroder (non sono, infatti, ambedue autori di colonne sonore? poco conta, allora, che la musica di uno sia scelta come colonna sonora, mentre l'altro compone musica a tale fine: lo stile, la storia e la finalità della composizione c'entrano assai poco, il risultato è lo stesso!. .. e anche, che è ciò che più conta di questi tempi, uguale è il pubblico che ne decreta il successo ...). Insomma: qllell"'esplosione" che era stata tentativo di abbattere steccati, di stracciare etichette, di rinnovare nel profondo le abitudini (e i vezzi e i vizi) dell'ascolto, si è trasformata in una strana e ambigua melassa, in cui tutto equivale a tutto, un tutto omologato al livello più basso. Eppure ... Eppure gli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta hanno segnato una svolta, nella storia della musica, che credo non sia esagerato definire "epocale.". E non è stata una svolta segnata (o addirittura appiattita) solo dallo sviluppo dei mass-media, che sono stati solo il "mezzo" (fedeli, in questo caso, al loro nome!) di questa svolta e della sua diffusione sovranazionalmente omogenea. Ma le ragioni profonde di questa svolta vanno cercate altrove, se se ne vuol capire da una parte la forza e, dall'altra, e contraddittoriamente, la durata limùata e l'incapacità di costituire un punto di non ritorno. Il risultato, comunque, è stato che, per la prima volta, da più di un millennio, è caduta la divisione netta (e sociologicamente più che naturale) fra musica "alta" e musica "bassa": fra la musica che è andata ad allungare i manuali e le enciclopedie di storia della musica, e tà" musica "usata" (anche l'ascolto cliquesta musica è uno dei possibili "usi", ma non il solo e non il più importante), "usata" dalle classi subalterne, musicalmente incolte, ma destinata, come musica trasmessa oralmente (e dunque "usata" ma non nel senso della moderna musica leggera come "usa e getta") destinata a influire (e notevolmente) sugli sviluppi della stessa musica colta, altrimenti paralizzata dai suoi tecnicismi, dalla sua stessa tecnica. Oggi questa divisione, sostanzialmente classista, è caduta: e quando parliamo di "musiche", non solo non ci riferiamo a differenze formali, ma non possiamo più riferirci nemmeno alle differenze sociali degli ascoltatori. Ma oltre alle divisioni sociali, sono cadute anche quelle generazionali (anche se più recentemente: negli ultimi trent'anni). Quando Adorno scriveva, nel 1953 (Moda senza tempo), "la moda senza tempo offre alle masse giovanili che accorrono ad essa di anno in anno, probabilmente per scordarsene dopo un paio d'anni ..." non poteva sapere (lo sappiamo noi, appunto a una generazione di distanza) che l'ascoltatore di rock degli anni Novanta non è necessariamente, comunque non solo, il giovane adolescente un po' ribelle: non solo perché ciò gli ricorda, nostalgicamente, la sua adolescenza, l'ascoltatore di rock oggi è un uomo o una donna sui quaranta-quarantacinque anni, impiegato o professionista, del tutto simile a quei signori che, una generazione fa (i loro padri) ascoltavano musica cosiddetta "classica" (casomai - ma aprirebbe tutt'altro capitolo: e ne varrebbe la pena- in questo caso la caduta delle differenze generazionali rispolvera, comunque sembra mostrare la rinascita di differenze di classe!). Penso, infine, che sia arrivato il momento di da.redi questi mutamenti una spiegazione diversa, più articolata e meno univoca, rispetto a quella (tipicamenteadorniana: ma Adorno aveva, negli anni Cinquanta-Sessanta, un quadro della situazione molto diverso dall'attuale, più "primitivo", se si vuole, più facilmente schematizzabile e analizzabile con divisioni nette, al limite del manicheismo), dicevo è ora di dare una diversa spiegazione rispetto a quella che permette, troppo facilmente!, di dare tutte le colpe (o i meriti, se si vuole) all'industria culturale. Anche se è vero, insomma (e il recente fenomeno-Mozart sembra confermarlo), che l'industria culturale è in grado di trasformare un musicista classico (nel caso di Mozart, finalmente!, il termine "classico" è esatto) in una pop-star (e nulla autorizza a pensare che, volendolo, non possa compiere la stessa operazione con Beethoven e, magari, con Strawinsky o, persino, con Schi:inberg), credo sia troppo semplice ridurre tutto a un puro gioco di mercato: il mutamento è stato troppo grande perché non si possa (forse: si debba) pensare che, quantomeno, l'industria culturale abbia esaurito la sua operazione di livellamento (verso il basso) e di conseguente rimescola15
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==